“Il paese di cuccagna” lettera alla Chiesa e alla società beneventana

Carissime sorelle, carissimi fratelli dell’amata Chiesa beneventana,

è ormai di qualche settimana fa la notizia di due bambini piccolissimi (uno di pochi mesi) lasciati incustoditi in macchina dal padre, nel frattempo entrato in un bar per giocare al videopoker. Quest’evento, tragico e brutale al tempo stesso, mi ha dato la spinta necessaria a scrivere questa lettera: con essa vorrei invitare tutti a una seria riflessione. Prima di entrare nel merito della questione, vorrei però dire una parola sul titolo da me scelto.

 

Perché questo titolo?

Il paese di cuccagna, infatti, è il titolo di un libro di Matilde Serao (1856-1927) uscito originariamente a puntate nel 1890 sul quotidiano Il Mattino di Napoli. Con grande maestria, la scrittrice si confermava (ne aveva già dato prova nel 1884, con Il ventre di Napoli) osservatrice geniale del vissuto partenopeo, dominato e guastato dal gioco del lotto che, come un’immensa piovra dai mille tentacoli, aveva finito per avvolgere nelle sue spire tutte le classi sociali e ridurre in miseria anche persone più che benestanti.

Il libro era un canto d’amore struggente per la bella Napoli, unito alla rabbia che sale incontenibile per l’acquiescenza totale con cui la città intera si sottometteva alla piovra che la strangolava inesorabilmente e con crudeltà ingoiava i miseri che le si prostituivano: è quanto accade a “Gaetano, il tagliatore di guanti”, che la devastante passione per il lotto soffoca “sino a fargli rubare il pane dei figli”, al punto che il più piccolo di loro, Peppiniello, è costretto a morire “di miseria, in un basso umido e puzzolente, mangiando male e scarsamente, dormendo coperto dei suoi vestitucci, attaccato a sua madre, per aver caldo”.

Una società nella quale si riverisce oltremodo l’assistito – colui, cioè, che il popolo riteneva fosse protetto e guidato dagli spiriti e perciò in grado di suggerire i numeri vincenti – dandogli accoglienza anche in ambienti nei quali mai ci si sarebbe aspettato d’incontralo. Una società in cui, oltre a scontare gli effetti della propria pazzia, gli uomini finiscono generalmente per trascinare con sé sul fondo anche le donne alle quali sono legati, che da parte loro non si ribellano come dovrebbero (è evidente, a tale proposito, la condanna da parte della Serao nei confronti della loro remissività). L’ossessione degli uomini investe quindi le stesse donne,  seppure in misura minore – oggi, purtroppo, non è più così! –, né vale a salvarle la capacità che hanno, quasi una preveggenza, d’intuire l’esito disastroso al quale saranno condotte. Il miraggio del “paese di cuccagna” trascina tutti a fondo. “La gran passione del guadagno grosso, immediato, dovuto alla fortuna”, alla fine – troppo tardi, però – rivela il suo inganno. Ieri come oggi!

 

Un vuoto legislativo

Già, ieri come oggi. E ieri come oggi ci si trova di fronte a un vuoto legislativo, perché – nonostante i fatti dimostrino la pericolosità del fenomeno – poco o nulla si è fatto, finora, per arginarlo da parte del potere legislativo, lasciando a chi tocca raccogliere i cocci, vale a dire alle istituzioni più vicine al territorio, di adoperarsi ciascuno come può per fronteggiare il pericolo. Questo vuoto è sicuramente il primo dato che emerge, e fa paura, perché estremamente pericoloso. Quanto si dovrà ancora attendere perché si comprenda che alla fin fine i soldi che entrano nelle casse dello Stato saranno sempre inferiori a quel che lo Stato stesso sarà costretto a spendere per far fronte ai danni causati da una dipendenza patologica nei confronti del gioco? Ma si vuole davvero comprendere questa verità, che pure è evidente e non ha bisogno di troppe dimostrazioni?

 

Perché rovinarsi l’esistenza?

Quanto a noi, si potrebbe obiettare che la nostra Benevento non è certo la Napoli descritta da Matilde Serao né sembra impazzire, in maniera così diffusa e generalizzata come racconta la scrittrice, per il gioco del lotto. E tuttavia la nostra provincia è la settima in Italia per quanto riguarda il gioco d’azzardo e le scommesse, nonché la prima in Campania per la spesa in slot machine. Se poi teniamo conto che, in media, ogni cittadino del Sannio (contando quindi anche i neonati!) spende, dati alla mano, più di 1.100 euro ogni anno nel gioco d’azzardo legale, possiamo facilmente comprendere quanto la spesa finisca per incidere su quelle famiglie in cui uno o più membri risultano affetti da una dipendenza patologica nei confronti del gioco. Una dipendenza che è vera e propria patologia, da prendere molto, ma molto sul serio.

In tanti, infatti, sembrano perdersi dietro Gratta e vinci e slot machine che all’inizio non richiedono cifre considerevoli, ma, una volta che ci si è assuefatti alla droga del gioco, portano a dilapidare interi stipendi. S’inocula così la speranza di poter meglio fronteggiare la crisi con piccole vincite che consentirebbero di giungere più agevolmente alla fine del mese e si finisce invece per produrre disperazione, perché le già scarse finanze domestiche arrivano a dimezzarsi a causa dei ripetuti tentativi che non sortiscono effetto. È vero che la crisi ci strangola, che il lavoro non c’è, che molti – soprattutto i più giovani – sono costretti ad andare a cercarlo lontano da casa, ma è ancor più vero che non è certo il gioco la via giusta per superare gli ostacoli.

In effetti, la tentazione sottile, per molti, è quella di voler risolvere i propri problemi con un guadagno “immediato, dovuto alla fortuna”, per usare ancora una volta parole di Matilde Serao. Per altri, forse, la tentazione è quella di saltare di colpo nella scala sociale per avere una maggiore agiatezza e riuscire così a imitare – negli acquisti e perfino negli sprechi – persone di ben altro ceto e condizione economica. Nell’un caso come nell’altro, la vera tentazione è quella di voler evitare una quotidianità spesso dura e arida, per rifugiarsi nel sogno; la tentazione, in definitiva, di vivere da eterni adolescenti, come nel celebre romanzo Peter Pan di James Matthew Barrie. Narra infatti lo scrittore che quando Wendy e i suoi fratelli sono condotti dal «ragazzo che non voleva crescere» sull’Isola che non c’è, sperimentano insieme a lui tutta una serie di emozioni e sensazioni nuove, ma nel momento in cui cominciano ad avere nostalgia di casa e invitano Peter a tornare a Londra con loro per farsi adottare dai signori Darling, questi rifiuta: l’eterno bambino si mostra anzi convinto che presto Wendy, Gianni e Michele torneranno sull’Isola che non c’è.

La persona ormai assoggettata alla schiavitù del gioco somiglia tanto a Peter Pan: rifiutando di crescere, cioè di affrontare la realtà rimboccandosi le maniche per far fronte ai propri problemi, preferisce continuare a giocare con la propria vita e quella degli altri, nell’illusione di raggiungere il “paese di cuccagna” e risolvere in un colpo solo, senza fatica, con una vincita fortunata, tutti i propri problemi. Al contrario, così facendo finisce per trascinare nel baratro non solo se stessa, ma anche i propri familiari, i quali si trovano loro malgrado costretti a subirne le amare conseguenze.

 

 

Cosa fare?

Se teniamo conto che nella provincia di Benevento il volume annuo di gioco che si registra è pari a circa 336 milioni di euro, dobbiamo prendere atto che tale sindrome è parecchio diffusa. La pubblicità a favore del gioco in denaro diviene perciò la prima vera forma d’incitazione colpevole alla dipendenza patologica, una propaganda alle cui storture gli amministratori potrebbero porre rimedio appellandosi a superiori esigenze di salute pubblica. In attesa che il Parlamento vari una legge ad hoc, non si potrebbe vietare una tale pubblicità negli stalli pubblici (fiancate degli autobus comprese)?

Al tempo stesso, la diffusione capillare di sale gioco, di slot machine e dei distributori di Gratta e vinci, mette ancor più in risalto il gesto virtuoso di quanti, pur potendo arricchirsi sulla patologia altrui, scelgono di non farlo. Queste persone meritano perciò il sostegno tanto degli amministratori quanto dei cittadini.

Sono convinto che molti soffrono per questa schiavitù alla quale hanno finito per assoggettarsi, una schiavitù di cui si sono resi conto troppo tardi, quando ormai non è più possibile uscirne in maniera autonoma e anche se sono stati essi stessi la causa della loro sofferenza, questa va sempre rispettata. Neppure mi sento di giudicare nessuno, perché ognuno ha le proprie fragilità e anch’io ho le mie. Invito però quanti ne sono affetti a lasciarsi aiutare, perché è pericoloso illudersi di potercela fare da soli: si finirebbe – inevitabilmente – per aggravare la propria situazione, magari invischiandosi in prestiti usurari, il che vorrebbe dire imboccare davvero una strada senza speranza.

In questo tempo di Avvento, quando è ormai vicina la celebrazione del Natale e tutta la liturgia ci chiama alla vigilanza, sento il bisogno di rinnovare a tutti l’invito a custodire se stessi, ad essere vigilanti, perché è facile cadere nella spirale del gioco, un vortice nefasto che alla fine non lascia sul terreno se non disperazione. Custodire se stessi è non tanto un dovere, quanto piuttosto un diritto che tutti noi dobbiamo esercitare perché sia più bella e serena la nostra vita e quella di coloro che vivono intorno a noi e ci sono affidati. I pastori, me per primo, favoriranno il raggiungimento di un tale obiettivo con alcune scelte essenziali: dando il primato a Dio in ogni cosa, vivendo con sobrietà, espletando un’intensa azione educativa.

Nell’invocare la materna intercessione di Maria, madre della speranza, convinto che, unendo volontà e competenze, il pericolo potrà essere sicuramente arginato, tutti voi benedico di cuore.

 

+ Felice Accrocca

 Vescovo