Messa crismale: omelia dell’Arcivescovo

Carissimi, vi saluto tutti cordialmente, in particolar modo i confratelli vescovi Andrea e Francesco. “Voi – dice il Signore per bocca del profeta – sarete chiamati sacerdoti del Signore, ministri del nostro Dio sarete detti” (Is 61,6); sì, perché Egli “ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1,6). Tutti i battezzati, infatti, “per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo”, “vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo”, per offrire, attraverso le attività quotidiane, “spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui, che dalle tenebre” li ha chiamati “all’ammirabile sua luce” (Lumen gentium 10). Come insegna il Concilio Vaticano II, “grande catechismo dei tempi moderni” (Paolo VI), “il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo” (ibidem).

In questa celebrazione la visibilità del Popolo di Dio, nella totalità delle sue membra, si concretizza con particolare efficacia e a tale celebrazione è connessa una grazia particolare. In effetti, secondo quanto afferma ancora il Concilio, vi è “una speciale manifestazione della Chiesa nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri” (Sacrosanctum concilium 41). Tutti noi, allora, consacrati con il crisma, “liberi dalla nativa corruzione, e consacrati tempio della tua gloria” siamo chiamati – come recita la preghiera di benedizione di questo santo olio – a spandere “il profumo di una vita santa”.

Siamo infatti tempio di Dio e lo Spirito di Dio abita in noi (cf. 1Cor 3,16). Rispettosi dell’ammonizione di sant’Ireneo di Lione, dobbiamo perciò diventare quel che siamo, facendo nostra l’esortazione di san Leone Magno che leggiamo nell’ufficio del giorno di Natale: “Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna” (Discorsi, Per il Natale 1,3). Perché ha ragione sant’Ignazio di Antiochia: “Meglio essere cristiani senza dirlo che proclamarlo senza esserlo” (Lettera agli Efesini).

L’evangelista Luca narra che Gesù, prima del suo ingresso in Gerusalemme, “quando fu vicino, alla vista della città pianse su di essa dicendo: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi, […] perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata»” (Lc 19,41-42. 44). Gerusalemme non comprese il tempo in cui fu visitata: per ciò che mi riguarda, anche a me capita di chiedermi se ho compreso e comprendo le visite di Dio nella mia vita, se so leggere, negli avvenimenti a volte confusi che si succedono in modo spesso tumultuoso, la mano di Dio, cosa Egli voglia dirmi oppure farmi comprendere; mi domando se cerco davvero di leggere la mia storia con i suoi occhi o, piuttosto, incapace di aderire al progetto che il Signore ha scelto per me, non finisco per piegare la sua alla mia volontà. Mi chiedo se so accettare, come Lui, le contrarietà, i tradimenti, i colpi bassi che possono venire da quanti sono più vicini, se sono disposto anche a rimanere solo – al pari di Gesù nell’orto dei Getsemani – pur di mantenermi fedele e se sono pronto a ritenere tutto ciò non come un calice amaro da bere per forza, ma come il segno qualificante di una sequela che non deve conoscere cedimenti, poiché è proprio nei momenti umanamente difficili che Egli con più frequenza ci visita.

Infine, mi chiedo ancora: quante volte il Signore deve piangere su di me, su me, Felice Accrocca, vescovo di questa Chiesa, e su ognuno di noi? Quante volte piange su me, sui miei sacerdoti e diaconi, sui miei seminaristi, sui religiosi e le religiose, sui catechisti e gli educatori, sugli operatori della liturgia e della carità, sui collaboratori delle parrocchie, su tutti i cristiani praticanti? Quante volte Egli deve dolersi di noi perché siamo praticanti non credenti? Domando allora, per me e per voi, stasera, in questa celebrazione alla vigilia del Triduo santo che celebreremo nelle diverse comunità parrocchiali, una fede coerente, una testimonianza di vita sincera, perché attraverso noi tutti – ministri ordinati, religiosi, religiose, laici – si diffonda il profumo della conoscenza di Cristo nel mondo intero (cf. 2Cor 2,14).

Il Signore ci dia luce per discernere le sue vie e forza per incamminarci sui suoi sentieri (cf. Is 2,3).

 

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Com’è tradizione, ricordo alcune situazioni particolari, affidandole alla preghiera comune: anzitutto il sacerdote ordinato nell’anno 2017, don Antonio De Ieso; il prossimo 15 luglio, invece, riceverà l’ordinazione sacerdotale don Antonio Malfi. Inoltre, in quest’anno 2018 celebrano il loro anniversario di ordinazione don Livio Iannaccone e don Pasqualino Lionetti (25 anni), così come mons. Angelo Gallo (50 anni): invochiamo dal Signore grazie abbondanti sul loro ministero. Ricordiamo infine, nella preghiera, il Vescovo emerito mons. Serafino Sprovieri, poi ancora don Clemente Arricale, mons. Vincenzo De Vizia, don Gerardo Mucci, don Pellegrino Rossi, don Geremia Soscia, don Nazzareno Tenga, tornati alla casa del Padre.

 

Vi annuncio con gioia che il prossimo 19 maggio, in occasione della veglia di Pentecoste, accoglieremo in Cattedrale la sacra immagine della Madonna delle Grazie [APLAUSO]. Ci prepareremo a questo momento di speciale grazia mettendo al centro la Parola e l’Eucarestia [APPLAUSO].

 

 

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