Omelia dell’arcivescovo mons. Felice Accrocca in occasione dell’imposizione del pallio

Eccellentissimo signor Nunzio, confratelli nell’episcopato, carissimi fratelli e figli, la circostanza odierna ci vede riuniti in occasione del rito dell’imposizione del pallio e dell’inizio dell’anno pastorale: utilizzato inizialmente dal vescovo di Roma, il pallio venne progressivamente concesso agli altri metropoliti fino a che, dal IX secolo, prese piede la consuetudine che quest’ultimi lo ricevessero dalle mani del romano pontefice. È così che oggi una metropolia antichissima come Benevento, che nel corso dei secoli ha conservato con Roma un rapporto speciale, riannoda il proprio legame con la Sede Apostolica e il Metropolita Romano, riaffermando in tal modo la volontà di camminare sempre e comunque cum Petro et sub Petro, nella consapevolezza che a Pietro il Signore ha affidato il ministero di confermare i fratelli nella fede (Lc 22,32).
Il pallio è immagine del giogo che Cristo ha preso sulle spalle e chiede a noi di portare, imparando così da Lui, mite e umile di cuore (Mt 11,29); un giogo che il Figlio di Dio accolse in piena comunione con la volontà del Padre, imparando “l’obbedienza da ciò che patì” (Eb 5,8), lasciandoci un esempio perché seguissimo le sue orme (1Pt 2,21). Come indicano le tre spille che trapassano le croci nere – memoria dei chiodi che trapassarono la carne del Redentore –, si tratta dunque di un segno che ricorda l’Agnello crocifisso, l’Agnello senza macchia che ha preso su di sé le nostre debolezze. Essere in comunione con il Padre vuol dire, per noi, deporre la nostra volontà nella sua, ripetere con Gesù, nelle diverse circostanze della vita: “Se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà” (Mt 26,42). Dobbiamo, come insegna san Francesco d’Assisi, “porre i nostri corpi sotto il giogo del servizio e della santa obbedienza” [Lettera ai fedeli (Seconda recensione), 40]. Tutto ciò con mitezza e dolcezza, senza resistenze, sposando, non subendo quanto Dio ci chiede di vivere: solo così possiamo trasmettere agli altri la pace, dono del Risorto.
Ma il pallio evoca ancora altre immagini, tutte sgorganti dal mistero di Cristo. La lana con cui è tessuto è di agnello, animale assai caro alla simbologia cristiana. Cristo è infatti l’Agnello immolato e, al tempo stesso, il Pastore che dà la vita per le proprie pecore; Egli è Pastore perché Agnello, additando in tal modo – a me in primo luogo – la via dell’obbedienza e del servizio: potremo essere pastori solo se saremo agnelli, disposti perciò a offrire la nostra vita per la salvezza di coloro che ci sono stati affidati, a percorrere strade impervie e rischiose pur di riportare sana e salva all’ovile la pecora smarrita. Evocando la biblica immagine del pastore, da emblema di autorità e di governo, il pallio diviene così un segno ammonitore, un richiamo costante a Cristo che ci chiede di fare ogni sforzo per garantire la salvaguardia e la crescita del gregge, per condurlo a verdi pascoli e alle acque della vita, cioè per nutrirlo con il cibo solido della Parola di Dio. Come ho scritto nella lettera che oggi viene consegnata alla diocesi, noi dovremmo “porre la Parola di Dio al centro di tutta l’azione pastorale”. Insegna infatti san Massimo il Confessore, che essa, “«annunziata dalla Chiesa, esige di essere posta sulla sommità del lucerniere, cioè all’apice dell’onore e dell’impegno di cui la Chiesa è capace» (Risposte a Talassio, risp. 63): anche per questo il luogo della proclamazione della Parola veniva sempre posto in alto, perché fosse plasticamente visibile il principio teologico che la Chiesa tutta sta sotto la Parola di Dio”.
Quella stessa Parola oggi ci ricorda che Dio, come non volle che la gratitudine di Naaman si esprimesse attraverso il denaro, così non desidera che la sua Chiesa si affanni per ricercare simili offerte né esige da noi doni e sacrifici: vuole invece il frutto sincero di una vita incontaminata e di una lode riconoscente, capace di comunicare a tutti i benefici ricevuti dall’Altissimo, a immagine di quel samaritano che – solo! – tornò indietro a rendere gloria a Dio. “Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta […]. Allora ho detto: «Ecco, io vengo – poiché di me sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà»” (Eb 10,5.7).
Quell’accettare il giogo di Cristo, oggi simboleggiato dal conferimento del pallio, diventa così la strada che il Maestro segna per ognuno: l’invito è di saper riconoscere nella sottomissione alla Sua volontà – tante volte umanamente poco comprensibile – il segno dell’elezione divina. Anche a noi, come a Paolo, Dio chiede di sopportare “ogni cosa” per quelli che Egli ha scelto, nella certezza che, “se moriamo con lui, con lui anche vivremo; se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso”. La sua fedeltà esige dunque la nostra: Dio voglia che ne siamo capaci!

                                                                                          + Felice vescovo