Messa del Crisma 2019: l’omelia dell’arcivescovo mons. Felice Accrocca

Carissimi, saluto tutti con gioia, in primis i vescovi Andrea e Francesco, e a ognuno di voi esprimo la mia riconoscenza perché avete scelto di condividere questo forte momento di Chiesa. Noi infatti, «pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12,5); sì, siamo, tutti insieme, il Corpo del Cristo (1Cor 12,27), «partecipi – dice la Colletta odierna – della sua consacrazione». Per questo dobbiamo «essere testimoni nel mondo della sua opera di salvezza» (ibidem).
«Ecco, viene con le nubi e ogni occhio lo vedrà, anche quelli che lo trafissero, e per lui tutte le tribù della terra si batteranno il petto» (Ap 1,7). L’evangelista Giovanni vede ciò già compiuto negli eventi drammatici della Passione, quando la gloria del Cristo s’irradia in tutta la sua potenza. «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto – aveva detto il Signore a Nicodemo –, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,14-15). Tutto si realizzò, commenta l’evangelista, «perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19,36-37).
Dobbiamo pertanto guardare al Signore Crocifisso, Morto e Risorto per noi, per seguire le sue orme nel cammino della vita (1Pt 2,21). È da Lui, infatti – dice l’abate Isacco della Stella –, che traiamo «non solo un esempio per la sequela, ma un antidoto per non morire dei morsi [del serpente]; non solo la capacità di sopportare, ma la grazia per la perseveranza; non solo il modello per la battaglia, ma la forza per la vittoria» (Discorso 15,13). Gli fa eco il grande abate di Chiaravalle che, in una famosa lettera a un giovane nobile il quale di sua volontà aveva abbandonato il mondo e si era ritirato in monastero, scriveva: «Se senti gli stimoli della tentazione, rivolgi il tuo sguardo al serpente di bronzo innalzato sulla croce; e nutriti non tanto alle ferite quanto al seno del Crocifisso. Egli ti farà da madre, e tu gli farai da figlio; e i chiodi non hanno potuto ferire il Crocifisso senza che attraverso le sue mani e piedi raggiungano i tuoi. Eppure i nemici dell’uomo sono suoi coinquilini. Sono essi che non amano te, bensì la loro propria gioia, che proviene da te» (Lettera 322).
Dobbiamo guardare a Lui per vincere i nemici che sono dentro di noi, non fuori di noi. Dice infatti Francesco d’Assisi: «ci sono molti che, quando peccano o ricevono un torto, spesso incolpano il nemico o il prossimo. Ma non è così, poiché ognuno ha in suo potere il nemico, cioè il corpo, a causa del quale pecca. Perciò beato quel servo che avrà sempre tenuto prigioniero un tale nemico consegnato in suo potere e sapientemente si difenderà da lui; poiché, finché farà questo, nessun altro nemico visibile o invisibile gli potrà nuocere» (Ammonizione X).
Siamo Corpo di Cristo, abbiamo detto. Tutti, perciò, dobbiamo cooperare all’edificazione di questo Corpo, che è la Chiesa (Col 1,24), un Corpo che non si costruisce secondo i criteri di valore e di giudizio che soprintendono alle società umane, sebbene – purtroppo – molte volte, al suo interno, si pensi e si agisca con criteri troppo umani, idonei più a costruire la città terrena che non la città di Dio. Il grande Agostino parla di due amori, che hanno dato origine a due città: «l’amore di sé fino al disprezzo di Dio ha fatto la città terrena, l’amore di Dio fino al disprezzo di sé ha fatto la città celeste. Perciò l’una si gloria in se stessa, l’altra nel Signore. L’una cerca la gloria degli uomini, l’altra trova in Dio, testimone della coscienza, la sua gloria più grande. Quella innalza la sua testa nella gloria; questa dice al suo Dio: Sei tu la mia gloria e innalzi la mia testa (Sal 3,4) (La città di Dio, XIV, 28).
Tutte le volte che agiamo per fini di gloria umana o di potere, di carriera o d’interesse economico, anche se operiamo all’interno della Chiesa e parliamo in suo nome, noi stiamo in realtà edificando la città terrena, che Agostino chiama anche civitas dyaboli e Dante la «città dolente» abitata da «perduta gente» (Inferno III, 1.3). Guardiamo a Colui che abbiamo trafitto, per trarre dal suo esempio forza e coraggio per essere nel mondo segno di contraddizione (Lc 2,34); Gesù, infatti, «per santificare il popolo con il proprio sangue, subì la passione fuori della porta della città. Usciamo dunque verso di lui fuori dell’accampamento, portando il suo disonore: non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (Eb 13,12-14).
«Anche quelli che lo trafissero si batteranno il petto» (Ap 1,7). Possa davvero, la Pasqua del Cristo, darci la forza di assumere i suoi criteri di valore e di giudizio, per essere nel mondo testimoni della sua opera di salvezza.

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Com’è tradizione, ricordo alcune situazioni particolari, affidandole alla preghiera comune: anzitutto i sacerdoti che ho ordinato nell’anno 2018, don Antonio Malfi e p. Massimiliano Grimaldi OFM, quindi i diaconi transeunti, Luca Cennerazzo, Cosimo Iadanza, Fabio Maria Atorino GAM. Inoltre, in quest’anno 2019 celebrano il loro anniversario di ordinazione don Marco Franzese, don Teodoro Rapuano, don Sergio Rossetti (25 anni), così pure don Giuseppe Giraldi, p. Davide Panella OFM, p. Franco Pepe OFM e p. Cristoforo Martignetti OFM (50 anni), mentre don Antonio Silvestri celebra il 60° di sacerdozio; avrebbe celebrato il suo giubileo sacerdotale anche don Carmine Gagliardi, che il Signore ha invece chiamato a Sé; con lui ricordiamo ancora don Giorgio Carbone, don Costantino Frusciante, p. Berardo Gasdia OFM e p. Alberto Palatella OFM, tornati alla casa del Padre.