Prima omelia del nuovo Pastore

Fratelli e figli carissimi: la Parola proclamata è per noi invito alla responsabilità e alla speranza. Alla responsabilità, perché anche noi come Davide disprezziamo spesso la parola del Signore e facciamo ciò che è male ai suoi occhi; alla speranza, perché quando vede il nostro pentimento sincero, anche a noi Dio dice: “Tu non morirai”. Nel triangolo relazionale che vede protagonisti Dio, noi stessi e i nostri fratelli, l’amore costituisce il legame essenziale che rende solido e libero ogni rapporto e ci unisce a Colui che è Amore (1Gv 4,8) e ci ha amati per primo (1Gv 4,19): “questa vita, che io vivo nel corpo – esclama l’Apostolo –, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).
Lo mostra la vicenda della prostituta intrufolatasi nella casa di Simone il fariseo. Come rivela il suo modo di porsi, questa donna soffre essa stessa per la propria situazione: si rannicchia ai piedi di Gesù alla stregua di quei cagnolini che, fulminati dalle urla del padrone, accettano umilmente di essere ripresi; piange a dirotto: non accusa gli altri, non si giustifica. Lava i piedi di Gesù e li asciuga; li bacia e li cosparge di olio profumato. I suoi soldi, guadagnati in modo indecoroso, servono ora a profumare il corpo del Maestro…
Il fariseo, invece, che osserva i precetti della legge, digiuna e paga le tasse, non ha debiti con gli uomini e crede perciò di non averli neppure con Dio. Si ritiene un giusto e quindi giudica con severità Gesù, che permette a una donna simile di avvicinarlo. Non si rende conto, Simone, che i suoi giudizi uccidono più della spada, che la sua giustizia non concede a quella fragile creatura nessuna possibilità di riscatto…
Quale idea abbiamo noi di Dio? Ci sentiamo amati e perdonati da Lui o, piuttosto, ne abbiamo paura? Forse anche noi, come Simone, finiamo per restare scandalizzati dalla sua misericordia? Sappiamo – come quella donna – riconoscere i nostri peccati? Siamo capaci, come Gesù, di accogliere e valorizzare i segni di cambiamento prodotti da persone che giudicavamo perdute? La risposta di Gesù al fariseo è illuminante: quanto più si è perdonati, tanto più s’è capaci d’amare. Il perdono rivela dunque la sua forza sanante, ma è necessario, perché ciò avvenga, che ognuno riconosca la propria condizione di peccato.
Sento questa parabola molto istruttiva per me, chiamato da Dio, attraverso la benignità di Papa Francesco, a esercitare quel che san Gregorio Magno definisce come “il magistero dell’umiltà” (La regola pastorale I, 1), che reputo un peso superiore alle mie forze. I segni stessi che ne identificano il ministero manifestano l’enorme responsabilità di cui è investita la persona del vescovo: cosa significa, infatti, il pastorale a cui egli si sostiene, se non la vigile cura del gregge da perseguire a prezzo della propria tranquillità e salvaguardia? E l’anello che porta al dito non indica forse il legame sponsale contratto con la sua Chiesa, alla quale deve donarsi senza riserve? Cosa rappresenta la croce che lo precede se non la vittoria che è chiamato a conseguire sulle umane passioni? E cosa la mitra se non l’immagine della corona di gloria che riceverà dopo aver sostenuto e vinto l’aspro combattimento, o anche – come l’intende il geniale e poco convenzionale Erasmo da Rotterdam (Elogio della pazzia, § 57) – l’espressione di una perfetta conoscenza dell’Antico e Nuovo Testamento, che egli deve possedere per poter esercitare il suo magistero?
È per questo che, conscio dei miei molti peccati, chiedo oggi l’aiuto e il sostegno della sposa, la Chiesa beneventana, che ricevo dalle mani del vescovo Andrea, il quale per dieci anni l’ha guidata con amore donandosi a lei senza riserve, perché insieme – gregge e pastore – possiamo aiutarci nella crescita reciproca. Una crescita che avverrà solo nell’unità di tutto il corpo ecclesiale, da realizzare non mortificando le differenze, ma valorizzandole nella comunione: camminando da soli, in ordine sparso, non andremmo lontano; serrando i ranghi in piccoli gruppi rischieremmo di scadere in dannose consorterie; dilaniandoci a vicenda faremmo il gioco dell’avversario, di colui che chiamiamo diavolo e satana (Ap 12, 9). Realizzando tante opere e iniziative potremmo forse dare l’immagine di una Chiesa efficiente, ma solo facendo un’autentica esperienza di comunione riusciremo davvero a essere una Chiesa efficace.
La Chiesa che sogno è, infatti, una Chiesa di buoni cittadini e buoni cristiani, custodi della legalità e consapevoli – al tempo stesso – del primato della legge di Dio. Una Chiesa libera da personalismi, aperta al soffio dello Spirito, che sappia mettere al centro l’Amore di Dio, unita, perciò, nella “convivialità delle differenze” (Tonino Bello), nella quale vescovo, sacerdoti, diaconi, persone consacrate, laici siano disposti a crescere in rapporti paritari pur nel rispetto della differenza dei propri ruoli. Una Chiesa aperta ai giovani, che cammina con i poveri, quali che siano le loro povertà e quali che siano le loro provenienze, geografiche e culturali; una Chiesa capace anche di produrre cultura, erede di una tradizione ricchissima che deve saper accogliere e valorizzare.
Non chiedetemi ora quali siano le strade da percorrere: dovremo trovarle insieme, attraverso un discernimento attento e condiviso. Intercedano per noi la Vergine santissima e i nostri Santi.

+ Felice Accrocca
Arcivescovo