XXXIV Convegno Pastorale Diocesano, 20-22 giugno 2022

“Svelaci il senso delle Scritture” relazioni del biblista Giulio Michelini

20 giugno 2022 –La proclamazione della Torà nel libro di Neemia (7,72–8,12)  e la proclamazione del Giubileo a Nazaret (Lc 4,14-30).

Interpretazione e applicazioni pastorali

 Iniziamo il nostro percorso a partire dall’episodio narrato in Ne 7,72–8,12 riguardante la proclamazione della Torà da parte di Esdra e dei leviti. Non ci limiteremo a considerazioni di tipo esegetico, ma concluderemo anche con alcune applicazioni di tipo pastorale. Concluderemo la prima serata con qualche riferimento alla pagina lucana di Gesù nella sinagoga di Nazaret.

 

  1. La proclamazione della Torà nel libro di Neemia

Per la nostra ricerca siamo debitori nei confronti degli studi introduttivi o dei commentari sui libri di Ezra e Neemia[1], come anche degli articoli specifici sul brano[2].

Prima di procedere alla lettura del testo di nostro interesse, sarà necessario rileggerlo e inquadrarlo all’interno dei libri di Esdra e di Neemia, come anche nel contesto storico in cui è nato quel racconto.

 

Neemia 7,72–8,12

772Poi i sacerdoti, i leviti, i portieri, i cantori, alcuni del popolo, gli oblati e tutti gli Israeliti si stabilirono nelle loro città. Giunse il settimo mese e gli Israeliti stavano nelle loro città.

81Allora tutto il popolo si radunò come un solo uomo sulla piazza davanti alla porta delle Acque e disse allo scriba Esdra di portare il libro della legge di Mosè, che il Signore aveva dato a Israele. 2Il primo giorno del settimo mese, il sacerdote Esdra portò la legge davanti all’assemblea degli uomini, delle donne e di quanti erano capaci di intendere.

3Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque, dallo spuntare della luce fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di quelli che erano capaci d’intendere; tutto il popolo tendeva l’orecchio al libro della legge. 4Lo scriba Esdra stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza, e accanto a lui stavano a destra Mattitia, Sema, Anaià, Uria, Chelkia e Maasia, e a sinistra Pedaià, Misaele, Malchia, Casum, Casbaddana, Zaccaria e Mesullàm.

5Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti; come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. 6Esdra benedisse il Signore, Dio grande, e tutto il popolo rispose: «Amen, amen», alzando le mani; si inginocchiarono e si prostrarono con la faccia a terra dinanzi al Signore. 7Giosuè, Banì, Serebia, Iamin, Akkub, Sabbetài, Odia, Maasia, Kelità, Azaria, Iozabàd, Canan, Pelaià e i leviti spiegavano la legge al popolo e il popolo stava in piedi.

8Essi leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura. 9Neemia, che era il governatore, Esdra, sacerdote e scriba, e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore, vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Infatti tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge. 10Poi Neemia disse loro: «Andate, mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato, perché questo giorno è consacrato al Signore nostro; non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza». 11I leviti calmavano tutto il popolo dicendo: «Tacete, perché questo giorno è santo; non vi rattristate!». 12Tutto il popolo andò a mangiare, a bere, a mandare porzioni e a esultare con grande gioia, perché avevano compreso le parole che erano state loro proclamate.

 

Esdra e Neemia

Esdra e Neemia – il primo scriba e sacerdote, il secondo membro dell’apparato amministrativo della corte di re Artaserse – negli omonimi libri sono i protagonisti, insieme a Zorobabele (cf. Esd 3‒4), della aliyà, la “salita”, il ritorno a Gerusalemme, da Babilonia, degli esiliati.

Anche se qualcuno ritiene che Esdra sia una creazione letteraria, è più probabile che la sua figura venga amplificata, e non semplicemente inventata, a partire dalla storia di un personaggio storicamente esistito ma di levatura secondaria. Esdra diventerà talmente importante per il giudaismo, al punto che nel Talmud si dirà che se la Torà non fosse stata data a Mosè, l’avrebbe ricevuta Esdra. Rispetto al modo in cui viene tratteggiata la figura di Neemia, un uomo di azione che si deve occupare di ricostruire Gerusalemme, il “secondo Mosè” è invece presentato come un sacerdote, un maestro, una guida, un “leader ideologico”, consapevole che la maggioranza degli ebrei che stavano a Gerusalemme «era oramai secolarizzata, stanca, apatica. Fu colui che capì che avrebbe dovuto cambiare la situazione non tramite decreti ufficiali ma con la forza della persuasione, l’esempio personale, la spiritualità, l’insegnamento» (A. Steinsaltz).

Sul piano storico, si potrà affermare con un buon margine di certezza che sia Esdra sia Neemia erano parte di una élite di cui i re persiani, Ciro per primo, si fidavano. A ragione della posizione strategica della provincia della Giudea, che si trovava come regione cuscinetto sul confine egiziano, fu incoraggiato il ritorno degli esiliati, che però dovevano essere guidati da dignitari legati all’amministrazione centrale persiana. Dovevano essere – e tra questi, pertanto, anche Zorobabele, Esdra e Neemia – persone «perfettamente allineate con l’ideologia imperiale persiana» (G. Massinelli), di elevate condizioni economiche e sociali, famiglie che avevano resistito all’assimilazione e che molto probabilmente erano vicine alle idee deuteronomistiche.

Ma come è avvenuto storicamente il rientro delle tribù, in quale modo è narrato nei libri di Esdra e Neemia, e in quale rapporto si trova la aliyà con l’episodio della proclamazione pubblica della Torà di Mosè in Ne 7,72–8,12?

 

Il ritorno dall’esilio

Le fasi della fine dell’esilio e della ricostruzione di Gerusalemme col suo tempio sono una vexata quaestio di esegeti e di storici, soprattutto per quanto attiene alla cronologia delle missioni di Esdra e Neemia. Le complicazioni derivano anche dal fatto che «i libri di Esdra e Neemia non seguono un ordine cronologico e sono impregnati di elementi leggendari, così che le figure e le missioni dei protagonisti sono difficilmente collocabili nella storia» (P. Merlo).

Alcuni studiosi, e sono forse la maggioranza, risolvono i problemi immaginando che la missione di Esdra debba essere posta dopo quella di Neemia, di cui costituisce il logico completamento, e giungono a «una cronologia rovesciata, rispetto all’ordine biblico: non dunque Esdra-Neemia, ma Neemia-Esdra. Nel 445, sotto Artaserse I, si colloca l’arrivo di Neemia a Gerusalemme, che si trova di fronte a una situazione di crisi e a una città ancora non completamente ricostruita. Questa missione sarà seguita, nel 398, da quella di Esdra, sotto il regno di Artaserse II» (L. Mazzinghi).

Altri invece rimangono ancora fermi al dato biblico, e ritengono più probabile la successione Zorobabale (primo gruppo che rientra in Giuda), Esdra (secondo gruppo, composto da idealisti e intellettuali), Neemia (che avrebbe guidato un ultimo gruppo di lavoratori e militari).

Se diverse sono le soluzioni proposte, è un elemento condiviso dagli storici e dagli esegeti il fatto che il reinsediamento nella terra promessa è stato un processo graduale, a tappe, con un rientro di qualche decina migliaia di esiliati a ondate successive. Mario Liverani, ad esempio, pensa a un ritorno scaglionato nell’arco di un secolo, in cinque momenti principali: alcuni gruppi potrebbero essere rientrati già in età babilonese, prima dell’editto di Ciro; altri grazie alla politica permissiva achemenide, a cui si è già accennato sopra; è il terzo gruppo, però – quello a cui apparterrebbe anche Zorobabele – quello più numeroso, al quale si deve ascrivere la ricostruzione del tempio; altri gruppi rientrarono invece al tempo di Artaserse, e, infine, una quinta e ultima ondata fu rappresentata da coloro che furono attratti dal successo della ricostruzione della città e del tempio.

 

La rilettura della Torà: contesto storico, teologico, letterario e liturgico

Anche per ciò che attiene il suo rapporto con la cronologia, la pagina della proclamazione della Torà di Mosè di Ne 7,72–8,12 viene collocata dagli storici in differenti momenti della restaurazione di Israele, e non vi è ancora un’opinione condivisa: «Il cap. 8, che contiene la lettura della Legge e la celebrazione della festa delle Capanne, costituisce un problema irrisolto, poiché è stato di volta considerato la conclusione dell’opera di Esdra (così in 3 Esdra), la cerimonia inaugurale della missione di Esdra (da collocarsi, perciò, fra Esd 7 ed Esd 8), un testo nato dal redattore finale» F. Bianchi).

Se però dall’analisi diacronica passiamo a una lettura sincronica e canonica del testo, osservandolo cioè nella collocazione in cui ci è stato trasmesso, scopriamo che questa pagina rivela comunque il suo senso a prescindere dal tempo in cui l’evento narrato deve essere accaduto, o dal modo in cui questo racconto è nato o è stato trasposto in forma letteraria.

La nostra pagina può essere considerata una liturgia all’interno di una liturgia più ampia. Il contesto in cui avviene la lettura e la spiegazione della «Legge di Mosè» (Ne 8,1), infatti, è quello della Festa delle Capanne, come si deduce dalla cornice in cui si trova la descrizione della grande assemblea raccolta a Gerusalemme. In Ne 7,72, però, si legge che «giunse il settimo mese e gli Israeliti stavano nelle loro città». Il settimo mese (corrispondente ai mesi di settembre/ottobre), Tishri, era il più importante mese dell’anno liturgico ebraico: secondo l’elenco di Lv 23,23-26 vi si celebrava non solo la festa delle Capanne (Sukkot), ma anche il Capodanno (Rosh ha-Shana) e il giorno dell’Espiazione (Yom Kippur). Quello era anche il mese in cui, per ordine di Mosè, secondo il Deuteronomio, ogni sette anni Israele avrebbe dovuto ascoltare attentamente la Torà:

 

10Alla fine di ogni sette anni, al tempo dell’anno della remissione, alla festa delle Capanne,11 quando tutto Israele verrà a presentarsi davanti al Signore, tuo Dio, nel luogo che avrà scelto, leggerai questa legge davanti a tutto Israele, agli orecchi di tutti. 12 Radunerai il popolo, uomini, donne, bambini e il forestiero che sarà nelle tue città, perché ascoltino, imparino a temere il Signore, vostro Dio, e abbiano cura di mettere in pratica tutte le parole di questa legge. 13 I loro figli, che ancora non la conoscono, la udranno e impareranno a temere il Signore, vostro Dio, finché vivrete nel paese in cui voi state per entrare per prenderne possesso, attraversando il Giordano (Dt 31,10-13).

 

Si trattava dunque di un’occasione unica, che poteva servire anche per domandare perdono a Yhwh e rinnovare il patto con lui. In questo breve spazio di tempo, nell’arco di pochi giorni, hanno luogo diversi avvenimenti, anche perché, secondo i libri di Esdra e Neemia, i rimpatriati dovevano risolvere molte questioni, non ultima quella che riguardava l’espiazione dei peccati.

Nella situazione preesilica il Kippur pre­visto dal Levitico poteva essere celebrato nel tempio, ma con la sua distru­zione «questo privilegio era scomparso. Ciò deve essere stato visto come una delle maggiori catastrofi subite dagli Ebrei. La loro vita religiosa era ora completamente spiazzata. Non sorprende pertanto che il primo atto dopo il ritorno fu quello di costruire un altare e iniziare a ricostruire il tempio» (Fensham). Cele­brato quindi un rito di espiazione, in Ne 9–10 si racconta di un altro punto cruciale della restaurazione, il rinnovamento dell’alleanza. Il digiuno, la confessione dei peccati (Teshuvah) e la lettura del libro della Legge, il richiamo all’alleanza con Abramo (Ne 9,7-8), a quella del Sinai (Ne 9,9-15), ma anche alla sua violazione: questi temi, già presenti nelle precedenti alleanze bibliche (quelle con Abramo e Mosè, appunto, ma anche quelle di Giosuè, Giosia, ecc.), ritornano con estrema chiarezza. Infine, si ripresenta anche il tema del patto scritto e sigillato (Ne 10,1-28) tra Yhwh e il suo popolo, che si caratterizza questa volta per essere un «patto nella fede».

La Legge, dunque, viene proclamata all’interno di questo ampio contesto, e al termine di tale liturgia viene descritta la celebrazione della festa delle Capanne (Ne 8,13-18): la ricorrenza di Sukkot, da molto tempo trascurata, viene ripresa proprio come richiesto da Mosè: «fu celebrata secondo le prescrizioni della Torah ed era la conseguenza dello zelo di tutti nel ricevere l’istruzione della Parola» (F. Manns).

 

La piazza davanti alla porta delle Acque

Un elemento non secondario riguarda il luogo del raduno, definito solamente attraverso l’espressione «sulla piazza davanti alla porta delle Acque» (Ne 8,1), cioè, probabilmente, nei pressi dell’antica città di Davide, l’Ophel, e quindi non proprio dove si trovava il tempio di Salomone che veniva ora ricostruito. Per quale ragione la lettura della Torà non si tiene all’interno del recinto più sacro di Gerusalemme, il tempio?

Se volessimo cercare tra le interpretazioni antiche potremmo ricorrere solo al commentario di Beda il Venerabile (673-735), il primo a essersi cimentato sul nostro testo. L’interpretazione di Beda del dettaglio sul luogo della proclamazione della Torà è di marca allegorica, come lo è di fatto l’interpretazione di tutto il libro («è la stessa narrazione nel suo complesso, che parla di esilio, ritorno e ricostruzione, a essere simbolo globale dell’esperienza cristiana»; C. Balzaretti). Pur essendo suggestiva, non è però utile sul piano storico: il popolo di Dio, infatti, secondo Beda, si sarebbe radunato «sulla piazza davanti alla porta delle Acque» perché doveva abbeverarsi di una bevanda spirituale che proveniva dai ruscelli della Sacra Scrittura.

Altre risposte possono essere avanzate. Secondo Francesco Bianchi, per esempio, «questo dato topografico potrebbe suggerire la superiorità della Torà rispetto al tempio».

La questione che stiamo analizzando, e che pare marginale, ci porta invece a esaminare lo sfondo culturale che potrebbe soggiacere dietro la scena, ovvero – come è stato recentemente ipotizzato – una liturgia di origine persiana. Prima però dobbiamo esaminare altri eventuali sfondi biblici che potrebbero essere condivisi con quello che stiamo considerando.

 

Le letture pubbliche nella Bibbia

Nella Bibbia ebraica sono documentate almeno altre due letture pubbliche della Torà, la prima in Gs 8,30-35 e la seconda in 2Re 22–23 (testo poi ripreso in 2Cr 34–35).

Il primo caso riguarda la lettura della legge sul monte Ebal, di fronte al Garizim, ed è collocato poco dopo l’ingresso nella terra promessa a Mosè; il secondo caso è la proclamazione del ritrovato libro della Torà, nel contesto della riforma di Giosia. Ci soffermiamo sui due testi, vedendone i punti in comune, e confrontandoli con Ne 7,72–8,12.

Giosuè mette in atto quanto a lui richiesto da Mosè prima di morire (cf. Dt 27,1-7), scrivendo la Legge su delle pietre e proclamandola alle tribù di Israele. Secondo le tradizioni nel Talmud, Giosuè avrebbe addirittura scritto la Torà in settanta lingue diverse, le lingue di tutti le genti del mondo, ma le nazioni avrebbero comunque rifiutato di leggerla. Ma dove sta il senso della proclamazione che Giosuè compie sull’Ebal? Mosè aveva chiesto al popolo, nel momento cruciale della presa di possesso della terra, di scrivere di nuovo e proclamare la Torà, come già il profeta l’aveva ricevuta al Sinai, e riscritta dopo il peccato del vitello d’oro. Della Parola di Dio non si deve perdere mai la memoria, pena l’impossibilità, poi, di metterla in pratica.

Il secondo caso di lettura pubblica della Legge, a riguardo, è illuminante. Il rischio di dimenticare che la Torà esiste è forte, ed è ciò che nella storia di Israele ha proprio avuto luogo, come documentato nell’episodio del ritrovamento della Legge sotto il re Giosia (2Re 22). È dal “ritrovamento” ritrovamento “casuale” della Torà da parte del sommo sacerdote Chelkia – che poi ne dà notizia allo scriba Safan (2Re 22,3-10) – che trae origine la sua rilettura pubblica.

Continuando il confronto, notiamo che mentre Giosuè riscrive la Torà sul monte Ebal e la proclama al popolo (Gs 8,30-35), e il re Giosia fa altrettanto dopo il ritrovamento del «libro dell’alleanza» (2Re 23,1-3), accade qualcosa di importante: sul monte Ebal, prima, e a Gerusalemme, poi, non c’è più Mosè con la generazione che aveva ricevuto la Legge, ma le generazioni successive che ricevono di nuovo la stessa Legge. Mentre questa viene riscritta e riletta pubblicamente, accade però che il testo “originale” si dilati, venga come allargato ed amplificato: dalle tavole della Legge, di dimensione limitata, si passa a grandi stele scolpite sull’Ebal, sopra l’intera superficie di un monte, che poi saranno trascritte in quel libro ritrovato e letto da Giosia. Il significato dell’unica Parola è lo stesso, ma le parole per esprimerlo sono molte di più, e da scritte diventano – in forza della loro proclamazione – anche orali.

In questo senso, non ci convincono del tutto le conclusioni di Lisa Joann Cleath, secondo la quale nel passaggio dalla proclamazione della Torà da parte di Giosuè, a quella di Giosia, fino alla lettura di Esdra, si assisterebbe a una «crescente enfasi sulla natura scritta del libro della Legge»:

 

Gs 8 raffigura la copia della Legge scritta da Giosuè una come testimonianza temporanea del testo orale della Legge. 2Re 22–23 descrive un antico libro della legge scoperto nel tempio come parola orale di Dio, profeticamente confermata come una parola divina diretta agli abitanti della Giuda di allora. Ne 8 sposta fortemente il testo verso la sua forma scritta, sottolineando la sua trasmissione in epoca postesilica come documento scritto da Mosè.

 

A nostro parere, piuttosto, ha ragione F. Manns quando sottolinea che attraverso la proclamazione pubblica la Legge scritta viene completata dalla Torà orale: la Torà scritta per essere compresa deve essere proclamata e spiegata dai leviti. Questo processo però, come vedremo, si completerà solo con la lettura documentata nel libro di Neemia.

Se abbiamo messo in evidenza i punti in comune che possono collegare le letture pubbliche della Torà compiute da Giosuè e da Giosia con Ne 7,72–8,12, non possiamo notare, però, che sono anche molte le caratteristiche peculiari del racconto che vede protagonista Esdra: da dove potrebbero derivare?

 

Una liturgia persiana

Mark Whitters ha trovato diversi paralleli, mai segnalati finora, tra la liturgia descritta in Ne 7,72–8,12 e alcune liturgie celebrate a Persepoli, la capitale dell’impero achemenide.

La struttura della liturgia di Ne 7,72–8,8, distinta da quella della festa delle Capanne di Ne 8,9-12, è alquanto complessa, e consta almeno di tredici distinti elementi: 1) la designazione precisa del giorno in cui ha luogo la liturgia (vv. 1-3); 2) il radunarsi del popolo in un luogo pubblico (v. 1); 3) la processione con il libro della Torà (v. 2); 4) la lettura pubblica del testo e l’ascolto da parte dei presenti (v. 3); 5) la piattaforma o tribuna di legno sulla quale si trova Esdra (v. 4); 6) la presenza di alcuni collaboratori designati, alla destra e alla sinistra di Esdra (Mattitia, Sema, ecc.; v. 4); 7) l’apertura del libro (e, forse, la sua elevazione; v. 5); 8) l’alzarsi in piedi del popolo (v. 5); 9) la benedizione di Dio da parte di Esdra, e la risposta del popolo (v. 6); 10) l’alzare le mani da parte dei presenti (v. 6); 11) la prostrazione con la faccia a terra da parte del popolo (v. 6); 12) l’insegnamento da parte di Giosuè, ecc., cioè dei leviti (v. 7); 13) la traduzione (in altre lingue?) o spiegazione da parte dei leviti (v. 8).

Il complesso di tutti questi elementi è – come è stato notato da Sara Japhet – assolutamente originale, senza paragoni in altre liturgie precedenti o seguenti documentate nella Bibbia. L’unico confronto possibile sarebbe, pertanto, sostiene Whitters, con le liturgie messe in atto nell’Apadana di Persepolis, il palazzo imperiale, liturgie descritte dalle iscrizioni e dalle rappresentazioni che vi compaiono e che sono ancora visibili. Le somiglianze sono impressionanti, mentre l’unico punto di differenza sta nel fatto che nel rito achemenide anziché la Torà e chi la proclama, Esdra, compare il re[3].

Su questo punto ci dobbiamo soffermare, perché potrebbe rispondere alla questione del luogo della «piazza davanti alla porta delle Acque», rispetto al tempio gerosolomitano, che abbiamo visto sopra. La Legge, letta pubblicamente e in uno spazio aperto (e non all’interno del tempio di Gerusalemme ricostruito), rappresenterebbe la ricollocazione nel posto più adeguato – quello che ad essa spettava – del fondamento della comunità giudaica in fase di restaurazione. È alla Torà che spetta dunque tale posto, che non poteva essere occupato dall’antica dinastia davidica, la quale, infatti, da questo momento in avanti scompare totalmente. A farne le spese è anche Zorobabele, che discendeva da Davide, e che dopo il completamento del tempio non è più nominato nel racconto biblico: è possibile che la sua discendenza dalla casa di David suscitasse in Giudea speranze messianiche (Ag 2,20-23) che spinsero le autorità persiane a richiamarlo per motivi politici.

Da questo momento la dinastia di Davide (almeno fino a Gesù di Nazaret[4]) non avrà alcun ruolo nella storia della Giudea: «Né Esdra né altri dei rimpatriati più importanti poteva assumere l’ufficio del re Davide, perché c’era già «il re dei re» a Persepoli. Gli ebrei, in breve, dovevano escogitare un altro modello di identità e di leadership. La cerimonia fornisce ai lettori indizi sui mezzi con cui la leadership di Israele doveva essere ricostituita senza minacciare la gerarchia politica imperiale» (M. Whitters).

Non dobbiamo dimenticare però un altro elemento, più interno al Giudaismo stesso. La pubblica lettura svolgerebbe, infatti, un ruolo sociale e politico non secondario: considerando le tensioni che si erano inevitabilmente presentate tra gli esiliati appena rientrati e coloro che invece erano rimasti nella terra di Giuda, la liturgia mirerebbe a creare unità tra di essi, come anche tra il clero e i laici.

Si può però evidenziare anche un altro punto, anticipando quello che riguarda più propriamente il ruolo dei leviti, del quale diremo meglio tra poco. F. Manns ha notato, a proposito delle differenze linguistiche tra l’ebraico e la lingua dell’impero achemenide, quanto segue:

 

La situazione linguistica in Palestina dopo il ritorno dell’esilio era complessa. L’aramaico dell’impero era la lingua franca nota tra i popoli del Medio Oriente dal IV secolo a.e.c. (2Re 18,26-28). Durante l’esilio l’aramaico, lingua dominante in Babilonia, era comune. Il bilinguismo degli esiliati viene menzionato nel Talmud, bPesaḥim 87b. Da ricordare che il problema dei matrimoni misti aveva incidenze linguistiche: molti dimenticarono l’ebraico (Ne 13,24). All’epoca di Neemia accanto all’ebraico si parlava un dialetto aramaico. La lingua più diffusa era l’aramaico che avrà un influsso sull’ebraico della Mishnah e sui libri tardivi della Bibbia come il libro di Giona.

 

La proclamazione pubblica della Legge, in altre parole, toccava anche un punto sensibile, non secondario, e cioè quello delle barriere linguistiche che separavano coloro che tornavano da Babilonia da coloro che erano rimasti in Giuda, mediante la condivisione sì di uno stesso testo biblico, ma tradotto e spiegato dai leviti in un’altra lingua.

Terminate queste considerazioni, possiamo ora ritornare al nostro testo, per approfondire il ruolo dei personaggi protagonisti della liturgia. Essi sono, così come compaiono nel testo, il popolo («tutto il popolo») di Israele, espressione utilizzata ben dodici volte, e per altre due volte indicato come l’assemblea di «uomini, delle donne e di quelli che erano capaci di intendere»; poi Esdra, identificato come sacerdote e scriba (vv. 2.4.9); Neemia, “governatore” e ‒ nominati tre volte ‒ i leviti.

 

Il popolo e i suoi rappresentanti

L’iniziativa è presa dal popolo, anche se, osserva H.G.M. Williamson, queste cose non accadono del tutto spontaneamente. Ma in tale intraprendenza si può anche vedere quella “fame della Parola” che è caratteristica della comunità postesilica, e che porta il popolo non solo a iniziare la liturgia (che durerà per diverse ore), ma a compiere diverse altre azioni: ascoltare la Legge, alzarsi in piedi, commuoversi fino a piangere per i propri peccati, e infine partecipare alla festa che segue la proclamazione.

Il popolo è radunato «come un solo uomo» (Ne 8,1), e tale descrizione richiama la conclusione del libro del Deuteronomio, allorquando Mosè raccomandava che «il popolo, uomini, donne, bambini e il forestiero che sarà nelle tue città», alla festa delle Capanne, assistesse alla proclamazione della Legge (cf. Dt 31,10-13). Due chiarimenti sono necessari, a riguardo del nostro testo. 1) Anche se si discute sul significato dell’espressione «quanti erano capaci di intendere» ai vv. 2 e 3 (che per alcuni significherebbe l’inclusione anche di persone appartenenti a categorie culturalmente basse), qui il riferimento è ai fanciulli. Poco sotto torneremo di nuovo su tale modo obliquo di indicarne la presenza. 2) I laici sono presenti non solo nell’insieme del “popolo”, ma vengono evocati anche nei tredici nomi citati al v. 8,4: «Lo scriba Esdra stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza, e accanto a lui stavano a destra Mattitia, Sema, Anaià, Uria, Chelkia e Maasia, e a sinistra Pedaià, Misaele, Malchia, Casum, Casbaddana, Zaccaria e Mesullàm». Se Ran Zadok ritiene che anche questi appena nominati siano sacerdoti e leviti, altri esegeti invece concordano nell’identificarli come laici; altri, invece, non si pronunciano a riguardo.

Se passiamo ora ad analizzare i movimenti che riguardano il popolo nelle sue componenti, particolarmente importante è il passaggio dal pianto alla gioia, dalla commozione alla festa. Si tratta di una vera gioia (non solo del popolo, ma anche del Signore!, v. 10: «la gioia del Signore è la vostra forza») corale e familiare, che coinvolge tutti, adulti e bambini. Approfondiamo la questione domandandoci da dove essa derivi. Sembra che tutto sia dovuto al fatto che la Parola proclamata ora sia davvero compresa: «viene schematizzato in questa forma il pensiero fondamentale del capitolo, ovvero che la lettura con la spiegazione porta alla comprensione, e la comprensione è fonte di gioia; la comprensione, a sua volta, dovrebbe diventare obbedienza, che a sua volta porterà alla gioia» (H.G.M. Williamson). Possiamo approfondire ulteriormente questo tema, a due livelli.

A questo punto sorge la domanda di come questo processo possa aver avuto luogo, da dove abbia preso l’avvio, e in che senso riguardasse la Torà. Possiamo rispondere a due livelli.

1) Se il «libro della Torà di Mosè» (v. 1), il testo cioè proclamato e compreso, è il Pentateuco che conosciamo noi (e che, sul piano letterario, si stava allora formando), si vuol dire che è non solo la sua ri-lettura, ma sono anche la spiegazione e la nuova interpretazione da parte di Esdra e dei leviti a portare il popolo a capire, apprezzare, gioire e decidere di mettere in pratica le parole di quel libro. Infatti, una delle caratteristiche di «tutto il popolo» è quella di avere nel proprio numero le donne e quelli che – abbiamo detto sopra – sono i bambini; ma poiché questi sono indicati in modo indiretto (e non come avviene in Esd 10,1, dove per un’altra assemblea si parla di «uomini, donne, fanciulli»), con l’espressione «capaci di intendere» l’autore vuole sottolineare il ruolo di chi spiega la Parola.

2) Infine, attraverso questa accorata partecipazione del popolo si descrive un cambiamento radicale rispetto alla Torà, che deve aver avuto luogo in epoca persiana, e che si può definire la “democratizzazione della Torà”. Lo descrive uno studioso dell’Università Bar-Ilan: «Esdra ha operato una delle più importanti rivoluzioni religiose nella storia della religione israelita, vale a dire la rimozione del libro della Torà dalle mani della classe ben definita dei sacerdoti custodi della legge, trasferendolo al popolo in generale. Così facendo, Ezra ha creato il “popolo del libro” e completato il processo il cui inizio è attribuito a Mosè» (A. Demsky). In qualche modo le conclusioni concordano con quanto scrive anche Francesco Bianchi: «La conoscenza della parola di Dio, letta, commentata e meditata, non crea un tecnico o un esperto, ma delle persone che la vivono e la mettono in pratica».

 

 

 

Esdra

Per tutta l’operazione di proclamazione della Legge, Esdra ne è l’altro protagonista, descritto come «esperto nella Legge di Mosè» (Esd 7,6) e come colui che «si era dedicato con tutto il cuore a studiare la Legge del Signore e a praticarla e a insegnare in Israele le leggi e le norme» (Esd 7,10). Egli però non è solo, è aiutato e accompagnato da laici e da leviti.

In particolare, non è raffigurato soltanto come uno scriba: è anche un sacerdote. A questo livello si trova un importante denominatore che collega la nostra pagina a quella che abbiamo commentato sopra, ovvero la proclamazione della Legge dopo il suo ritrovamento da parte del re Giosia. La doppia connotazione di Esdra come «scriba» (Ne 8,1) e «sacerdote» (8,2), ci riporta a quella situazione:

 

Quando [dal popolo] viene dato l’ordine di prendere la Torà, Esdra è chiamato “scriba”, mentre quando poi effettivamente la porta, è chiamato “sacerdote”. Questo ci ricorda fortemente il testo di 2Re 22, quando il “sacerdote” Chelkia consegna il libro appena scoperto, e lo “scriba” Safan lo legge. Tutte e due le funzioni, e le azioni ad esse associate, sono ora combinate in una singola persona, Esdra. Uno dei risultati di ciò è che la funzione sacerdotale è direttamente connessa alla Torà, non all’azione cultuale nel senso stretto del termine, come, ad esempio, nell’offerta dei sacrifici (G.J. Venema).

 

Esdra, dunque, in questa sua duplice veste «porta» il libro della Torà di Mosè davanti al popolo (Ne 8,2), e la «legge» dal mattino a mezzogiorno (Ne 8,3), stando su una tribuna insieme a coloro che, si è detto sopra, probabilmente non sono sacerdoti, ma forse rappresentanti del popolo (Ne 8,4). Compie infine altri gesti necessari per la lettura («apre il libro»; Ne 8,5) e il culto («benedice» Dio; Ne 8,6). È a questo punto che intervengono altri personaggi.

 

I leviti, interpreti della Legge

I leviti sono gli altri protagonisti della pagina. Questi già dovevano svolgere un ruolo importante, probabilmente emerso dopo l’esilio in Babilonia e il ritorno in patria, quando suppliranno – insieme agli scribi e ai dottori della Torà – a quei sacerdoti che nel frattempo avevano perso credibilità. Mark Leuchter sostiene che questi godevano di alcune importanti prerogative, come quella, per esempio, di poter proclamare il testo nelle liturgie, e di orientarne così la comprensione; ma potevano anche decidere il ritmo della preghiera, cadenzata da canti o dal suono dello shofar (Mishna Tamid 7,3).

I leviti espressamente nominati nel brano si trovano al v. 8,7: «Giosuè, Banì, Serebia, Iamin, Akkub, Sabbetài, Odia, Maasia, Kelità, Azaria, Iozabàd, Canan, Pelaià e i leviti spiegavano la legge al popolo e il popolo stava in piedi». Si osservi che essi svolgono sì un ruolo importante, ma «prima viene chiarito, fuori di ogni dubbio, che lo svolgeranno in mezzo alla gente, e a servizio del popolo».

Dall’autore vengono messi in evidenza i seguenti elementi: sono i leviti a spiegare il testo, autonomamente rispetto a Esdra, e il loro metodo esegetico produce delle nuove comprensioni del testo che proclamano. Più specificamente, sono soggetti di tre verbi, sui quali ci soffermeremo più sotto: «leggere», «spiegare», «dare senso».

Sembra proprio che il ruolo dei leviti superi addirittura quello di Esdra, che invece è presentato piuttosto come un semplice “lettore”, mentre sono i suoi collaboratori a operare un’esegesi sapienziale della Torà e a spiegarne le implicazioni nascoste. Forse si assiste qui a una retroproiezione, ovvero gli scribi-leviti sono già diventati quello che saranno poi, i mediatori di un testo che viene dalla tradizione sacerdotale, ma che oramai sono i leviti a gestire: mentre rimangono nell’alveo della tradizione, portano altri significati a quelle parole che trasmettono e interpretano.

L’esito di quanto compiuto dai leviti avrà un importante significato per la trasmissione e la comprensione della Bibbia ebraica, e per l’insieme delle tradizioni giudaiche, dando origine alla concezione delle due leggi: la Torà scritta e quella orale. Dalla definizione del loro preciso ruolo nel brano che stiamo analizzando, però, deriveranno anche ulteriori conseguenze importanti, che prendiamo velocemente in esame.

Traduzione, spiegazione, commento

La questione del ruolo dei leviti in rapporto a Ne 7,72–8,12 è complessa. Per introdurci alla sua disamina riportiamo anzitutto quanto Frédéric Manns ebbe a scrivere recentemente a tale proposito:

 

La tradizione rabbinica ha riconosciuto in questo commentario [dei leviti] l’origine del Targum. «Il Targum è l’opera di Onqelos il proselita perché sta scritto in Ne 8,8: “Lessero nel libro della Torah di Dio: questo è il testo (miqra)”. Dando un’interpretazione: questo è il Targum. Dando il senso: questi sono i versetti (ha-pesoukin). E capirono il testo: questi sono gli accenti (pisqe teamim) che erano stati dimenticati poi ristabiliti” (bMegillah 3a). Menahem Kasher, un esperto del Targum Neofiti, pensa che il Targum possa risalire all’epoca di Esdra. Ne 8 sarebbe il prototipo della liturgia sinagogale. Di fatto, già il Talmud vede in Ne 8 l’origine delle versioni aramaiche (bMegillah 3a; yMegillah 4,1; bNedarim 37b). Queste tradizioni risalgono all’epoca di Rab, cioè Abba Areqa, il fondatore dell’accademia di Sura in Babilonia.

 

Dalla spiegazione dei leviti, pertanto, secondo la tradizione giudaica riportata da Manns, nascerebbero le traduzioni verso l’aramaico. Non tutti gli storici sarebbero d’accordo con tali conclusioni, benché seriamente fondate e confortate da altre ricerche, ma in ogni caso il vero problema del testo sta nell’esatta traduzione e interpretazione di Ne 8,8a. Confrontando alcune versioni moderne emergono già delle differenze, come quelle tra «Essi leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura» (Conferenza Episcopale Italiana) e «Leggevano il libro della Legge di Dio a voce alta, per paragrafi, rendendone il significato comprensibile nella lettura» (Francesco Bianchi). Se andiamo ai commenti, vale ancora quanto scrive F. Manns:

 

La lettura viene spiegata. Il v. 8 afferma che capirono la lettura. Ezra traduceva e dava il senso. L’espressione ebraica utilizzata è meforash we-sum sekhel. Meforash è il participio pu’al del verbo parash che significa «decidere» (Lv 24,12; Nm 15,35) e «tradurre» (Esd 4,18). Il senso viene precisato dall’espressione we-sum sekhel, «emetteva il senso». Il testo era accompagnato da una interpretazione e da un commentario e il popolo capiva. La Torah orale completava la Torah scritta.

 

La piattaforma per la Torà

Rimane ora da esaminare un elemento liturgico importante, quello della «tribuna [migdal] di legno» (Ne 8,4) sulla quale stava Esdra insieme ad altre tredici persone (Ne 8,5).

Migdal nella Bibbia ebraica, come nei manoscritti di Qumran, significa “torre”, cioè una struttura rialzata di legno o di mattoni, che si può trovare sia nelle città sia in aree rurali. Il termine può apparire nei toponimi (è, ad esempio, il nome della città di Magdala, sul lago di Tiberiade), o avere un senso allegorico, come quello probabilmente implicato in Ne 8,4.

Queste torri potevano essere costruite per varie finalità: per l’agricoltura, l’allevamento, come difesa, oppure anche come sepolcri, o segnali lungo le strade.

Un uso simile a quello di cui si parla nel nostro brano potrebbe trovarsi in 2Cr 6,13, dove si descrive la preghiera di Salomone, il quale aveva eretto «una tribuna di bronzo e l’aveva collocata in mezzo al grande cortile; era lunga cinque cubiti, larga cinque e alta tre». In questo caso però il termine ebraico è diverso. Migdal nella traduzione in greco della Bibbia (LXX), è invece bema, come l’ebraico bimah, che designa la piattaforma-pulpito, ovvero le piattaforme sinagogali di cui vi è già notizia nel Talmud, che ne fa risalire l’uso all’epoca del Secondo tempio.

L’altezza di queste piattaforme poteva variare: nella sinagoga di Bet Alfa (VI sec.), ad esempio, il rialzo è di un solo gradino. Le dimensioni previste per quella di Ne 8,4 dovevano essere ampie, se sopra di essa non vi era solo Esdra, ma anche altre tredici persone.

Lo scopo della piattaforma era che il testo della Torà che veniva letto si potesse ben comprendere, in quanto la proclamazione avveniva da un luogo rialzato, in modo che il suono superasse gli ostacoli che avrebbe altrimenti incontrato.

Una questione interessante riguarda il modo in cui tradurre la seconda parte della frase del v. 8,4, nella quale si descrive la finalità di quella struttura, frase che viene resa nella versione della Conferenza Episcopale con «che avevano costruito per l’occorrenza». Nella LXX, per una qualche ragione, non viene invece tradotta la frase, che però rimane ambigua. La frase potrebbe essere intesa come «che avevano costruito per la parola», ma tra i commentatori l’unico, per quanto abbiamo potuto verificare, a valorizzare tale possibilità è Joseph Blenkinsopp.

 

Conclusione. Una riflessione pastorale

È quasi inutile sottolineare l’importanza di Ne 7,72–8,12 per la liturgia. Basterà citare Claudio Balzaretti: «La liturgia festiva ci fa ascoltare la voce di Esdra e Neemia solo una volta ogni tre anni, eppure si potrebbe dire che è proprio questo libro che è il fondamento della lettura pubblica della Bibbia nella comunità (Ne 8)» (C. Balzaretti).

Non possiamo soffermarci su come la scena descritta in Ne 7,72–8,12 ha prodotto i suoi effetti sulle liturgie sinagogali e su quella cristiana (pensiamo al brano su Gesù nella sinagoga a Nazaret, in Lc 4,16-30); ci limitiamo invece a una conclusione di stampo pastorale.

È stato già compiuto, tra l’altro, da una studiosa dell’Università Cattolica di Washington, T.V. Lafferty, un collegamento tra il brano di Ne 7,72–8,12 e la celebrazione della messa appena dopo la riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Mentre la messa prima era celebrata in latino, si passò a un certo punto alle lingue vernacole, in modo che tutti potessero capire le letture bibliche che venivano proclamate. Perché questo potesse aver luogo, però, furono necessarie molte mediazioni.

Da parte nostra possiamo aggiungere qualche altro elemento, partendo dallo stesso punto. Nel testo della proclamazione della Torà del libro di Neemia, di fatto, diverse mediazioni sono presenti.

La prima è che qualcuno che custodisce la Torà sappia dove si trovi il rotolo, per prenderlo. È il sacerdote Esdra, che viene in caricato a tal riguardo («tutto il popolo… disse allo scriba Esdra di portare il libro della legge di Mosè»; 8,1), e che esegue il compito: «il sacerdote Esdra portò la legge» (8,2). Il popolo non “prende” da solo la Legge, la richiede e la riceve. La stessa dinamica è sottesa al già ricordato episodio di Gesù a Nazaret, quando egli stesso deve attendere che gli venga consegnato il rotolo di Isaia (viene quindi già attestata, attraverso questa testimonianza, la prassi di lettura della “haftarah”) per poterlo poi proclamare e commentare (cf. Lc 4,17). Non solo, Gesù deve anche riconsegnare lo stesso rotolo all’inserviente da cui l’aveva ricevuto (Lc 4,20).

La seconda mediazione presente in Ne 7,72–8,12 è la necessità di una persona sola, tra le tante del popolo, per proclamare la parola biblica. È Esdra che legge: «Lesse il libro sulla piazza davanti alla porta delle Acque» (8,3). Il testo, cioè, non solo necessita di un esperto alfabetizzato, ma ha bisogno anche di una voce unica per essere udito bene, e ciò non sarebbe possibile se vi fossero più voci a proclamarlo contemporaneamente. Quanto accadrà poi nella liturgia sinagogale – e cioè la suddivisione del lungo testo della “porzione” di Torà di un sabato tra più lettori – vede comunque un solo lettore per ogni parte della “porzione”.

La terza mediazione è di tipo architettonico: è chiaro che la piattaforma – la «tribuna di legno» (Ne 8,4) – non serve solamente a dare dignità all’atto compiuto, ma è necessaria perché il suono della voce di chi proclama raggiunga tutti.

La quarta mediazione comporta che la parola proclamata venga non solo udita, ma compresa. Non si tratta della “lettura” di Ne 8,3, ma piuttosto di una “ri-lettura”, compito che non è svolto da Esdra, ma da altri. Nel libro di Neemia – osserva T.V. Lafferty – sono i leviti a tradurre i contenuti della parola sacra, applicandoli alla vita e all’esperienza di chi li ascoltava. Poiché le famiglie ritornate dall’esilio vivevano in circostanze diverse rispetto a quelle di cui si parlava nella Torà, e avevano bisogno della Torà per ricostruire la società, decidono di rimanere nel solco della tradizione, ma nella nuova situazione in cui si trovavano. È la stessa Torà quella che ascoltano, ma che deve essere spiegata e declinata per nuove sfide.

Tutte queste mediazioni, però, servono a un unico scopo: che la Parola di Dio sia attingibile, cioè, nei termini descritti sopra, “democratizzata”, come Esdra fece per la Torà.

In conclusione, si potrebbe dire che ancora oggi le pagine bibliche proclamate dall’ambone hanno bisogno di chi sappia leggere bene il testo, come anche di chi possa fornirne una spiegazione che ne rivitalizzi il significato. Dette condizioni però non porterebbero a nulla se il popolo – a cui è destinata la Parola – non avesse più sete di essa, e non volesse accoglierla dalle mani e dalla bocca di coloro che possono offrirla. Tutto ciò è possibile, infine, nel perfetto accordo di un unico corpo, composto da laici e sacerdoti.

Quanto abbiamo cercato di dire ci riporta a ciò che Papa Francesco ha scritto a riguardo dell’omelia, una vera e propria “mediazione”, simile a quella compiuta dai leviti nel brano che abbiamo analizzato: «Il Signore e il suo popolo si parlano in mille modi direttamente, senza intermediari. Tuttavia, nell’omelia, vogliono che qualcuno faccia da strumento ed esprima i sentimenti, in modo tale che in seguito ciascuno possa scegliere come continuare la conversazione. La parola è essenzialmente mediatrice e richiede non solo i due dialoganti ma anche un predicatore che la rappresenti come tale» (Evangelii gaudium 143).

 

 

  1. La proclamazione del Giubileo a Nazaret

Ed eccoci finalmente al secondo brano che prendiamo in esame, tratto dal vangelo secondo Luca. Come già fatto per il testo di Neemia, lo rileggiamo e lo rivediamo da vicino.

 

Luca 4,14-30

14 Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. 15Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode.

16 Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. 17 Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto: 18 Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, 19 a proclamare l’anno di grazia del Signore.

20 Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. 21 Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato».

22 Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». 23 Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». 24 Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. 25 Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26 ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova a Sarepta di Sidone. 27 C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro».

28All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. 29Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. 30Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

 

Un racconto esclusivamente lucano

Mentre il vangelo di Marco presenta Gesù che, esauritasi la trilogia tipica dei sinottici (il Battista; il battesimo; la tentazione), annuncia subito il regno dei cieli mostrandone la presenza (Mc 1,15), soprattutto con la lunga giornata di Cafarnao (Mc 1,21s.), Luca premette al racconto della sua missione in Galilea la scena della sinagoga di Nazaret. Anche Matteo, in verità, sente il bisogno di iniziare con una introduzione (e cita il profeta Isaia: «perché si adempisse la scrittura»; cfr. Mt 3,14s.), ma non “espande” il soggiorno di Gesù a Nazaret: dice, soltanto, che Gesù – lasciata Nazaret (Mt 3,13) – venne ad abitare a Cafarnao.

 

Un racconto programmatico

Alcuni motivi presenti nel brano sono noti anche a Marco e a Matteo: lo stupore per l’insegnamento di Gesù, la domanda sulla sua famiglia, il detto sul profeta non onorato in patria. Ma Luca è l’unico che collochi questi temi a Nazaret, luogo dove Gesù viene allevato e trascorre la sua vita nascosta (Lc 4,16). L’insistenza su questo episodio ci porta a pensare che si tratta di un racconto “programmatico”, un brano introduttorio. Quanto accade nella sinagoga di Nazaret è ciò che accadrà a Gesù nel resto del vangelo di Luca. Abbiamo allora un esempio tipico (Ghiberti) della predicazione di Gesù nella sua prima fase, esempio centrato fondamentalmente su due questioni: chi è Gesù e a chi sarà destinata la sua predicazione (vista l’incomprensione nella sua patria). Sull’ultima questione si intrattiene la liturgia della prossima domenica, e quindi ne rimandiamo la spiegazione.

Alcuni commentatori (Pitta tra gli altri) hanno giustamente notato alcune incongruenze o stranezze nel racconto. Per esempio: il brano che Gesù legge da Isaia è troppo breve per una lettura sinagogale: Luca quindi non è interessato a dare un resoconto completo della scena. La citazione tratta da Isaia 61,1–3 fatta da Luca, vede un’aggiunta (Is 58,6: «mandare gli oppressi in liberazione») e omissioni rispetto all’originale del profeta, cosa che in sinagoga non sarebbe stata ammessa. C’è anche un anacronismo (Aletti): Luca parla al v. 23 di qualcosa che Gesù avrebbe già compiuto a Cafarnao, ma l’evangelista non ci ha ancora detto che Gesù andrà in quella città (si saprà solo al v. 31). Sembra che non ci dobbiamo soffermare sui problemi visti sopra, ma dobbiamo piuttosto vedere il senso del racconto.

 

Il giubileo

Il brano profetico letto da Gesù in sinagoga rivela che è ormai inaugurato l’anno di liberazione, il giubileo. Questo il lieto annuncio: i poveri, che invano aspettano – insieme ai prigionieri e agli oppressi – un cambiamento, saranno salvati da Dio stesso. Gli studiosi si interrogano se mai sia stato celebrato veramente, secondo i termini del libro del Levitico al cap. 25, un giubileo in Israele. Potremmo pensare che – se anche questo non dovesse essere accaduto – finalmente la promessa di Dio con Gesù si realizza.

 

Oggi

Suggestiva la nota redazionale che a volte si trova nei quotidiani, quando il giornalista racconta di qualcosa che dovrà accadere “domani” ma poi precisa tra parentesi: “oggi per chi legge”. Si crea quasi una contemporaneità con gli avvenimenti: il giornale è stato chiuso in macchina la sera prima (“ieri”), ma quando lo si legge è l’“oggi” in cui accade la notizia per te. Qualcosa di simile è nascosto nel nostro brano. Con una fine capacità narrativa Luca ci racconta di qualcuno (io, lettore di oggi), che prende in mano un libro in cui è scritto che qualcuno (Gesù, lettore di ieri), prende in mano un libro e legge qualcosa scritto da un altro, secoli prima (Isaia). Quella cosa detta da Gesù in quell’unico irripetibile momento – e da Isaia scritta ancora prima – non vale solo per gli uditori contemporanei di Gesù, ma per tutti coloro che oggi leggono e ascoltano le stesse parole. Ogni volta che sarà letto il brano di Luca di Gesù a Nazaret, è un anno giubilare. Con il dono dello Spirito (4,18: “lo Spirito del Signore è sopra di me”) Gesù interpreta e rende viva la parola del profeta Isaia: lo stesso Spirito anima le parole bibliche e le rende attuali per noi, oggi.

 

Fino ad Emmaus

Il vangelo di Luca è quindi un unico lungo sermone: Luca potrebbe aver pensato a tutto il suo vangelo come a uno sviluppo, un commento, del brano di Isaia sul giubileo (D. Monshouwer, «The Reading of the Prophet in the Synagogue at Nazareth», Bib 72 [1991] 90-99). Gesù “apre il rotolo” e legge (4,17), inizia a commentare (4,21), e tutte le sue parole – quelle di questo brano, ma anche quelle dell’intero vangelo – insieme alle sue opere, sono racchiuse fino all’inclusione del capitolo ventiquattresimo; lì un episodio simile al nostro: Emmaus. In Lc 24,27 Gesù ancora una volta “spiega le Scritture”, come già a Nazaret. Questa volta a farlo è il Risorto: la Scrittura che doveva compiersi, si è adempiuta nella sua morte e risurrezione, e nella possibilità di liberazione che con queste ci viene data. Alla fine del vangelo Gesù chiude il rotolo (“arrotolò il volume”, 4,20), e lo passa a noi, come passa il pane ai discepoli (“lo spezzò e lo diede loro”, 24,30). Solo se leggiamo quel libro, e non lo lasciamo chiuso, giunge per noi l’“oggi” della salvezza.

 

21 giugno 2022

 

Emmaus (Lc 24,13-35).

Interpretazione e applicazioni pastorali

 

Riprendiamo il nostro percorso e questa volta ci soffermiamo su un testo molto noto del Nuovo Testamento, che si trova esclusivamente nel Terzo vangelo.

 

Lc 24,13-35

13Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, 14e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. 15Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. 16Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. 17Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; 18uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». 19Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; 20come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. 21Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. 22Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba 23e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. 24Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto». 25Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! 26Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». 27E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.

28Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. 29Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. 30Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. 31Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. 32Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?». 33Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, 34i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». 35Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

 

I due di Emmaus come due di noi

Uno dei più bei racconti delle apparizioni post-pasquali è quello narrato da Luca alla fine del suo vangelo (24,13-35). Gesù raggiunge due dei suoi discepoli proprio lì dove questi si trovano: in cammino. È, in una interpretazione esistenziale, il percorso della loro vita, il loro pellegrinaggio di tutti i giorni («in quello stesso giorno», v. 13), fatto di progetti (l’arrivare a Emmaus), di fatiche (il dover percorrere undici km.), di tristezze («col volto triste», v. 17), di pause e di ripensamenti («si fermarono», v. 17). È il cammino della solita routine quotidiana: un giorno come un altro, una strada come un’altra, il normale pendolarismo, ancora un’altra delusione.

Tutto accade nell’assoluta ferialità. Non deve sfuggirci che «quello stesso giorno» del v. 13 è, come detto all’inizio del capitolo ventiquattresimo del vangelo, «il primo giorno della settimana» (24,1). Se ha ragione Matteo Crimella a trovare una possibile allusione al racconto della creazione di Gen 1,5, «nel quale il primo giorno è proprio chiamato così (yôm ̕ehād e nella LXX heméra mía»[5]), è però anche vero che nel computo della settimana giudaica si tratta del giorno dopo l’ultimo, cioè, in rapporto alla settimana attuale, di un “nostro lunedì”: il giorno dopo il sabato è quello del ritorno alla vita di tutti i giorni. Rispetto al racconto della manifestazione di Gesù sul monte della Trasfigurazione, che viene resa col massimo dei mezzi retorici e stilistici per descrivere lo splendore di Gesù, del suo volto e della sua veste, qui – come in tutti i racconti delle apparizioni nei vangeli canonici – siamo di fronte a una ferialità sconcertante.

Il Risorto si mostra e non viene riconosciuto. Quanta distanza rispetto agli apocrifi, come il Vangelo di Pietro, nel quale anche i soldati a guardia del sepolcro sono costretti ad ammettere che è risorto, perché vedono che «la testa dei due [uomini; leggi “angeli”] arrivava fino al cielo, ma la testa di colui che conducevano per mano», fuori dalla tomba, «oltrepassava i cieli»: la gloria di Gesù è quella di colui che è superiore agli angeli, e per questo «egli ha dimensioni gigantesche, penetra nei cieli, segno della sua condizione divina»[6]. Quando il Risorto appare ai suoi, o non è riconosciuto, o è scambiato per qualcun altro (come il custode del giardino di Gv 20,15).

 

La predica della delusione

I due discepoli – chiunque essi siano – hanno il volto segnato da una forte disillusione: «noi speravamo» (elpízomen, Lc 24,21), dicono, e quindi, ormai non sperano più; l’imperfetto è il tempo delle azioni accadute nel passato, che si compiono ieri e non hanno più alcuna correlazione con l’oggi. Quell’antica speranza non ha lasciato tracce, anche perché i discepoli speravano nella liberazione di Israele, come riferiscono (24,21), e nella venuta del Regno concomitante con la cacciata dei Romani. Ma sono proprio stati i Romani a mettere a morte Gesù.

I due di Emmaus non solo si raccontano quanto accaduto. Nella loro disillusione, si rafforzano reciprocamente nelle loro idee. A leggere il greco, in fatti, il v. 14 suggerisce che era come se si tenessero l’un l’altro una predica, l’omelia: autoì homíloun pròs allélous; il verbo è proprio homiléo, a indicare che si tratta, scrive F. Bovon, di una conversazione molto seria, proprio quasi di una predica[7]. La loro delusione si rafforza nella visione che vicendevolmente si raccontano. È un meccanismo a cui siamo abituati, soprattutto in alcune situazioni comunitarie, quando ci si lamenta e si innesca quel fenomeno ricorsivo che caratterizza anche la Chiesa di oggi.

Forse per i due di Emmaus di lamentarsi c’è anche ragione, e i vangeli infatti non nascondono lo smarrimento che caratterizza il tempo tra la morte e risurrezione del Signore e la sua rinnovata presenza. Il capitolo ventunesimo del vangelo di Giovanni, con Pietro che dice «Io vado a pescare» (Gv 21,3) ma non riesce a prendere nulla evoca forse la stessa situazione: il Risorto non si vede, e infatti i due di Emmaus dicono proprio che quelli che sono andati a cercarlo non l’hanno visto (Lc 24,24).

Questi discorsi che i due discepoli si scambiano però non solo rafforzano la loro delusione, portano anche a una divisione. Alludiamo al significato di un altro verbo, quello al v. 17, con il quale è proprio Gesù che, dopo essersi avvicinato loro, descrive quanto stanno facendo, antibállo, che significa non solo “discutere”, ma nel suo primo significato è proprio “lanciare contro”, “disputare”, “controbattere”.

 

Alcuni segni per uscire dalla crisi

Che cosa si può fare, quando i discepoli entrano in una crisi e si ritrovano in un circuito delusivo? Nemmeno i segni che sono stati già dati loro bastano più, e – possiamo aggiungere – meno male che è proprio così. Soprattutto, sono segni importanti, ma che non forzano mai a credere.

Il primo è la tomba vuota, come si spiega anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica: «Nel quadro degli avvenimenti di Pasqua, il primo elemento che si incontra è il sepolcro vuoto. Non è in sé una prova diretta. L’assenza del corpo di Cristo nella tomba potrebbe spiegarsi altrimenti. Malgrado ciò, il sepolcro vuoto ha costituito per tutti un segno essenziale. La sua scoperta da parte dei discepoli è stato il primo passo verso il riconoscimento dell’evento della Risurrezione» (CCC 640). Il segno della tomba vuota è eloquente, ma può significare molte cose, troppe cose, come accade per i nostri fallimenti e i nostri errori e le nostre tombe: ecco allora che c’è bisogno di un’interpretazione di quel segno.

Essa viene proprio dagli angeli ermeneuti (come quelli citati in Lc 24,23), che sono in grado di riferire un’altra versione, rispetto a quella che, ad esempio, subito si auto-fornisce Maria, immaginando che qualcuno abbia portato via il suo Signore (cf. Gv 20,2.13.15), o rispetto a quella che viene data dai capi dei sacerdoti e dagli anziani di Gerusalemme, che infatti dicono che sono stati i discepoli di Gesù a rubare di notte il suo cadavere (cf. Mt 28,11-15). Servono degli angeli – angeli o uomini[8] – che dicano che «si è alzato», «è stato sollevato», «è risorto» (Mc 16,6).

Secondo i vangeli, l’unico discepolo che non ha avuto bisogno delle loro spiegazioni è il discepolo che Gesù amava: forse per questo amore, appena giunto alla tomba vuota, vede e crede senza che alcuno gli spieghi nulla. È l’unico, osserva implicitamente Giovanni, che aveva capito la Scrittura (cf. Gv 20,9): è quanto dovrà accadere anche per i due di Emmaus. Per tutti gli altri discepoli, invece, i racconti pasquali presumono che – come anche per la nostra vita – servano interpreti, esegeti, non solo di parole, ma dei fatti accaduti. Interpreti capaci di spiegare e dare un senso a quello che ci è successo, in particolare alle delusioni più grandi, alle croci più dolorose. Se l’angelo è qualcuno che viene da fuori, dall’alto, ora per i due di Emmaus arriva un altro straniero, un forestiero.

 

La metodologia del Risorto a Emmaus

Nella storia dei due discepoli di Emmaus – pur non essendo presenti gli angeli – è Gesù in persona che interviene. Per loro solo l’incontro personale con Gesù e con la sua Parola può ribaltare la situazione. Il percorso a tappe che racconta Luca può essere visto in questi punti principali.

  • In primo luogo, c’è bisogno di qualcuno che sia “fuori” dalla situazione. Tra loro due, i discepoli di Emmaus si raccontano sempre la stessa storia. Gesù invece è definito in Lc 24,18 paroikeis, “forestiero”, secondo la versione CEI. Il termine è in realtà un verbo, paroikéo, che conosciamo bene perché da qui viene il sostantivo “parrocchia”. Il verbo è composto da oikéo, “abitare”, e para, “presso”: possiamo pensare, con Tucidide, a “chi abita vicino”, è “confinante”, ma, con altri autori antichi, che è comunque “straniero” (Diogene Laerzio)[9]. Il verbo ricorre solo un’altra volta nel Nuovo Testamento, in Eb 11,9, per descrivere Abramo, che per fede «fu forestiero nella terra promessa come in una regione straniera»[10]. Il dono dello straniero è quello di chi sa portare una prospettiva “altra”, impensata, capace di rovesciare il tavolo dalle carte incartate che lo occupano da troppo tempo. Quello che sembra un normale pellegrino che è andato a Gerusalemme per la Pasqua, e che pare non essere al corrente di quanto accaduto, è l’unico capace di vedere le cose come stanno veramente e dare una chiave di lettura che i due di Emmaus non si sarebbero potuta dare.
  • Gesù si avvicina e cammina con loro: come poi farà Filippo, correndo per raggiungere il carro del funzionario etiope e salendovi sopra, dopo avergli chiesto «Capisci quello che stai leggendo?» (At 8,30). Il Risorto si prende tempo per coloro che ora sta accompagnando, proprio come il neanískos che si era occupato di chi andava alla tomba ed era seduto sul sepolcro (Mc 16,5). Certo, la sua postura emula quella del Cristo, seduto alla destra di Dio (cf. «Siedi alla mia destra»; Mc 12,36 e Sal 109,1 LXX), ma non si può dimenticare l’angelo che prende del tempo per confortare il pusillanime Gedeone, e per questo «venne a sedere sotto il terebinto di Ofra» per poi chiamarlo all’ufficio di Giudice (cf. Gdc 6,11).
  • Gesù pone delle domande – come già Filippo con il funzionario etiope – e lascia che i due di Emmaus rispondano. Non dà subito la soluzione, e non nega nemmeno quanto i due stanno dicendo. Ponendo domande, dà loro credito. Si tratta del modo in cui Gesù interviene di fronte ad alcune situazioni critiche, come quando, ad es., ancora nel Terzo vangelo, è un dottore della Legge a fargli una domanda difficile, alla quale Gesù risponde con la controdomanda «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?» (Lc 10,26). È un investimento di fiducia, con il quale l’opinione dell’altro viene ascoltata e rispettata. Solo dopo Gesù potrà rimproverare i due discepoli (24,25), solo dopo averli ascoltati.
  • Come detto, Gesù li rimprovera. In gioco non c’è il fatto che i due discepoli non l’abbiano riconosciuto, quanto piuttosto la loro incapacità di comprendere le Scritture. Per questo sono senza intelligenza (anóetoi) e lenti (bradeis) nel credere (24,25), perché hanno mancato di esercitare non solo la fede, ma anche la ragione.
  • Infine, anche Gesù – ora al momento opportuno – inizia la sua interpretazione (il verbo al v. 27, tradotto da CEI con “spiegare”, è dierméneusen, da diermeneúo, “tradurre”, “interpretare”) e tiene la sua omelia, «cominciando da Mosè e da tutti i profeti» (24,27). A fronte dell’omelia che si sono fatti i due, Gesù intreccia un vero e proprio sermone, di cui sottolineiamo solo le seguenti caratteristiche.

Mentre l’omelia dei due di Emmaus è un loop che non va da nessuna parte, quella di Gesù ha un inizio e una conclusione. Ci vengono alla mente i sentieri interrotti di cui parlava Martin Heidegger, che conosceva bene la Foresta Nera, quando scriveva: «Legnaioli e guardaboschi li conoscono bene. Essi sanno che cosa significa trovarsi in un sentiero che, interrompendosi, svia»[11]. Il rischio di molti discepoli è proprio quello di perdersi in strade che non portano a nulla, in pensieri che si ripetono: Gesù sblocca questa situazione con la sua Parola. In questo modo il Maestro termina ad Emmaus il sermone iniziato a Nazaret, quando nella sinagoga aveva inaugurato l’anno della liberazione e aveva tenuto la più breve ma dirompente omelia della storia (nove parole nel greco: cf. Lc 4,21: «Oggi si è compiuta questa Scrittura nelle vostre orecchie»). È la tesi di un esegeta, che vede tutto il vangelo di Luca come lo sviluppo di quanto Gesù aveva anticipato a Nazaret, che si è realizzato nella sua vita, ed è narrato nelle sue conclusioni a Emmaus[12].

Gesù interpreta le Scritture con il classico metodo rabbinico della “collana”, ma così facendo interpreta la vita dei due discepoli. Offre loro un’altra storia, cioè un’altra versione della storia che essi hanno narrato, che era corretta ma che mancava della conclusione. È la caratteristica della lettura di fede, della lettura cristiana che non toglie nulla a quanto si trova nel Primo Testamento, ma lo legge alla luce di Cristo. Si noti la particolarità di questa operazione: se da una parte Gesù (la lettura cristiana) aggiunge qualcosa che nelle profezie non si trovava (circa la morte di un Messia, mai prevista dai profeti), dall’altra però quelle profezie sono ancora capaci di illuminare quanto accaduto. Il Risorto, che si sarebbe potuto limitare a ribadire che è uscito vivo dalla tomba, riprende invece la matassa ingarbugliata della storia narrata dai due di Emmaus, e la districa trovando il filo che tiene unito tutto.

  • Infine, Gesù spezza il pane per i suoi. Viene riconosciuto così con un gesto familiare, quello della berakah (24,31) che si pronuncia ad ogni pasto, e che però aveva caratterizzato il sacrificio di Cristo nella sua ultima cena. Gesù così non si accontenta di passare un po’ di tempo coi suoi discepoli delusi, o di riscaldare il loro cuore aprendo loro il senso le Scritture, ma mangia con loro, ribadendo l’amore che aveva avuto nei loro confronti, dando loro la sua vita, cioè il suo corpo e il suo sangue. Li mette così in grado di riconoscerlo poi nei santi segni, nella storia, nei poveri, negli stranieri che incontreranno d’ora in avanti.

Osservazioni conclusive e riflessione pastorale: l’omelia e la Parola di Dio

Le questioni sollevate dalla pagina di Emmaus sono molte, ma noi ci soffermiamo ora sull’“omelia” dei due discepoli, confrontata con quella di Gesù, e approfondiamo il tema rileggendo una parte dell’Esortazione Apostolica Evangelii gaudium di papa Francesco (24 novembre 2013), che si può considerare il più importante testo pastorale del Papa, e che dedica molto spazio all’omelia.

In un testo a stampa (come quello delle edizioni EDB) che può prendere poco più di 130 pagine, l’omelia ne occupa 11, a dire l’importanza di questo strumento per la conoscenza della Parola di Dio. Riportiamo sotto soltanto i paragrafi 135-148 (dedicati all’omelia e alla preparazione della predicazione), sui quali ci possiamo soffermare in questo convegno, e lasciando gli altri, sulla personalizzazione della Parola di Dio e la lettura spirituale (149-159) alla lettura personale.

 

Papa Francesco, Evangelii gaudium

L’omelia

  1. Consideriamo ora la predicazione all’interno della liturgia, che richiede una seria valutazione da parte dei Pastori. Mi soffermerò particolarmente, e persino con una certa meticolosità, sull’omelia e la sua preparazione, perché molti sono i reclami in relazione a questo importante ministero e non possiamo chiudere le orecchie. L’omelia è la pietra di paragone per valutare la vicinanza e la capacità d’incontro di un Pastore con il suo popolo. Di fatto, sappiamo che i fedeli le danno molta importanza; ed essi, come gli stessi ministri ordinati, molte volte soffrono, gli uni ad ascoltare e gli altri a predicare. È triste che sia così. L’omelia può essere realmente un’intensa e felice esperienza dello Spirito, un confortante incontro con la Parola, una fonte costante di rinnovamento e di crescita.
  2. Rinnoviamo la nostra fiducia nella predicazione, che si fonda sulla convinzione che è Dio che desidera raggiungere gli altri attraverso il predicatore e che Egli dispiega il suo potere mediante la parola umana. San Paolo parla con forza della necessità di predicare, perché il Signore ha voluto raggiungere gli altri anche con la nostra parola (cfr Rm10,14-17). Con la parola nostro Signore ha conquistato il cuore della gente. Venivano ad ascoltarlo da ogni parte (cfr Mc1,45). Restavano meravigliati “bevendo” i suoi insegnamenti (cfr Mc 6,2). Sentivano che parlava loro come chi ha autorità (cfr Mc 1,27). Con la parola gli Apostoli, che aveva istituito «perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14), attrassero in seno alla Chiesa tutti i popoli (cfr Mc 16,15.20).

 

Il contesto liturgico

  1. Occorre ora ricordare che «la proclamazione liturgica della Parola di Dio, soprattutto nel contesto dell’assemblea eucaristica, non è tanto un momento di meditazione e di catechesi, ma è il dialogo di Dio col suo popolo, dialogo in cui vengono proclamate le meraviglie della salvezza e continuamente riproposte le esigenze dell’Alleanza» (Giovanni Paolo II, Lett. ap. Dies Domini). Vi è una speciale valorizzazione dell’omelia, che deriva dal suo contesto eucaristico e fa sì che essa superi qualsiasi catechesi, essendo il momento più alto del dialogo tra Dio e il suo popolo, prima della comunione sacramentale. L’omelia è un riprendere quel dialogo che è già aperto tra il Signore e il suo popolo. Chi predica deve riconoscere il cuore della sua comunità per cercare dov’è vivo e ardente il desiderio di Dio, e anche dove tale dialogo, che era amoroso, sia stato soffocato o non abbia potuto dare frutto.
  2. L’omelia non può essere uno spettacolo di intrattenimento, non risponde alla logica delle risorse mediatiche, ma deve dare fervore e significato alla celebrazione. È un genere peculiare, dal momento che si tratta di una predicazione dentro la cornice di una celebrazione liturgica; di conseguenza deve essere breve ed evitare di sembrare una conferenza o una lezione. Il predicatore può essere capace di tenere vivo l’interesse della gente per un’ora, ma così la sua parola diventa più importante della celebrazione della fede. Se l’omelia si prolunga troppo, danneggia due caratteristiche della celebrazione liturgica: l’armonia tra le sue parti e il suo ritmo. Quando la predicazione si realizza nel contesto della liturgia, viene incorporata come parte dell’offerta che si consegna al Padre e come mediazione della grazia che Cristo effonde nella celebrazione. Questo stesso contesto esige che la predicazione orienti l’assemblea, ed anche il predicatore, verso una comunione con Cristo nell’Eucaristia che trasformi la vita. Ciò richiede che la parola del predicatore non occupi uno spazio eccessivo, in modo che il Signore brilli più del ministro.

 

La conversazione di una madre

  1. Abbiamo detto che il Popolo di Dio, per la costante azione dello Spirito in esso, evangelizza continuamente sé stesso. Cosa implica questa convinzione per il predicatore? Ci ricorda che la Chiesa è madre e predica al popolo come una madre che parla a suo figlio, sapendo che il figlio ha fiducia che tutto quanto gli viene insegnato sarà per il suo bene perché sa di essere amato. Inoltre, la buona madre sa riconoscere tutto ciò che Dio ha seminato in suo figlio, ascolta le sue preoccupazioni e apprende da lui. Lo spirito d’amore che regna in una famiglia guida tanto la madre come il figlio nei loro dialoghi, dove si insegna e si apprende, si corregge e si apprezzano le cose buone; così accade anche nell’omelia. Lo Spirito, che ha ispirato i Vangeli e che agisce nel Popolo di Dio, ispira anche come si deve ascoltare la fede del popolo e come si deve predicare in ogni Eucaristia. La predica cristiana, pertanto, trova nel cuore della cultura del popolo una fonte d’acqua viva, sia per saper che cosa deve dire, sia per trovare il modo appropriato di dirlo. Come a tutti noi piace che ci si parli nella nostra lingua materna, così anche nella fede, ci piace che ci si parli in chiave di “cultura materna”, in chiave di dialetto materno (cfr 2 Mac7,21.27), e il cuore si dispone ad ascoltare meglio. Questa lingua è una tonalità che trasmette coraggio, respiro, forza, impulso.
  2. Questo ambito materno-ecclesiale in cui si sviluppa il dialogo del Signore con il suo popolo si deve favorire e coltivare mediante la vicinanza cordiale del predicatore, il calore del suo tono di voce, la mansuetudine dello stile delle sue frasi, la gioia dei suoi gesti. Anche nei casi in cui l’omelia risulti un po’ noiosa, se si percepisce questo spirito materno-ecclesiale, sarà sempre feconda, come i noiosi consigli di una madre danno frutto col tempo nel cuore dei figli.
  3. Si rimane ammirati dalle risorse impiegate dal Signore per dialogare con il suo popolo, per rivelare il suo mistero a tutti, per affascinare gente comune con insegnamenti così elevati e così esigenti. Credo che il segreto si nasconda in quello sguardo di Gesù verso il popolo, al di là delle sue debolezze e cadute: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno» (Lc12,32); Gesù predica con quello spirito. Benedice ricolmo di gioia nello Spirito il Padre che attrae i piccoli: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Lc10,21). Il Signore si compiace veramente nel dialogare con il suo popolo e il predicatore deve far percepire questo piacere del Signore alla sua gente.

 

Parole che fanno ardere i cuori

  1. Un dialogo è molto di più che la comunicazione di una verità. Si realizza per il piacere di parlare e per il bene concreto che si comunica tra coloro che si vogliono bene per mezzo delle parole. È un bene che non consiste in cose, ma nelle stesse persone che scambievolmente si donano nel dialogo. La predicazione puramente moralista o indottrinante, ed anche quella che si trasforma in una lezione di esegesi, riducono questa comunicazione tra i cuori che si dà nell’omelia e che deve avere un carattere quasi sacramentale: «La fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rm10,17). Nell’omelia, la verità si accompagna alla bellezza e al bene. Non si tratta di verità astratte o di freddi sillogismi, perché si comunica anche la bellezza delle immagini che il Signore utilizzava per stimolare la pratica del bene. La memoria del popolo fedele, come quella di Maria, deve rimanere traboccante delle meraviglie di Dio. Il suo cuore, aperto alla speranza di una pratica gioiosa e possibile dell’amore che gli è stato annunciato, sente che ogni parola nella Scrittura è anzitutto dono, prima che esigenza.
  2. La sfida di una predica inculturata consiste nel trasmettere la sintesi del messaggio evangelico, e non idee o valori slegati. Dove sta la tua sintesi, lì sta il tuo cuore. La differenza tra far luce sulla sintesi e far luce su idee slegate tra loro è la stessa che c’è tra la noia e l’ardore del cuore. Il predicatore ha la bellissima e difficile missione di unire i cuori che si amano: quello del Signore e quelli del suo popolo. Il dialogo tra Dio e il suo popolo rafforza ulteriormente l’alleanza tra di loro e rinsalda il vincolo della carità. Durante il tempo dell’omelia, i cuori dei credenti fanno silenzio e lasciano che parli Lui. Il Signore e il suo popolo si parlano in mille modi direttamente, senza intermediari. Tuttavia, nell’omelia, vogliono che qualcuno faccia da strumento ed esprima i sentimenti, in modo tale che in seguito ciascuno possa scegliere come continuare la conversazione. La parola è essenzialmente mediatrice e richiede non solo i due dialoganti ma anche un predicatore che la rappresenti come tale, convinto che «noi non annunciamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore: quanto a noi, siamo i vostri servitori a causa di Gesù»(2 Cor4,5).
  3. Parlare con il cuore implica mantenerlo non solo ardente, ma illuminato dall’integrità della Rivelazione e dal cammino che la Parola di Dio ha percorso nel cuore della Chiesa e del nostro popolo fedele lungo il corso della storia. L’identità cristiana, che è quell’abbraccio battesimale che ci ha dato da piccoli il Padre, ci fa anelare, come figli prodighi – e prediletti in Maria –, all’altro abbraccio, quello del Padre misericordioso che ci attende nella gloria. Far sì che il nostro popolo si senta come in mezzo tra questi due abbracci, è il compito difficile ma bello di chi predica il Vangelo.

 

La preparazione della predicazione

  1. La preparazione della predicazione è un compito così importante che conviene dedicarle un tempo prolungato di studio, preghiera, riflessione e creatività pastorale. Con molto affetto desidero soffermarmi a proporre un itinerario di preparazione per l’omelia. Sono indicazioni che per alcuni potranno apparire ovvie, ma ritengo opportuno suggerirle per ricordare la necessità di dedicare un tempo privilegiato a questo prezioso ministero. Alcuni parroci sovente sostengono che questo non è possibile a causa delle tante incombenze che devono svolgere; tuttavia, mi azzardo a chiedere che tutte le settimane si dedichi a questo compito un tempo personale e comunitario sufficientemente prolungato, anche se si dovesse dare meno tempo ad altri impegni, pur importanti. La fiducia nello Spirito Santo che agisce nella predicazione non è meramente passiva, ma attiva e creativa. Implica offrirsi come strumento (cfr Rm12,1), con tutte le proprie capacità, perché possano essere utilizzate da Dio. Un predicatore che non si prepara non è “spirituale”, è disonesto ed irresponsabile verso i doni che ha ricevuto.

 

Il culto della verità

  1. Il primo passo, dopo aver invocato lo Spirito Santo, è prestare tutta l’attenzione al testo biblico, che dev’essere il fondamento della predicazione. Quando uno si sofferma a cercare di comprendere qual è il messaggio di un testo, esercita il «culto della verità» (Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi). È l’umiltà del cuore che riconosce che la Parola ci trascende sempre, che non siamo «né padroni, né arbitri, ma i depositari, gli araldi, i servitori» (ibid.). Tale disposizione di umile e stupita venerazione della Parola si esprime nel soffermarsi a studiarla con la massima attenzione e con un santo timore di manipolarla. Per poter interpretare un testo biblico occorre pazienza, abbandonare ogni ansietà e dare tempo, interesse e dedizione gratuita. Bisogna mettere da parte qualsiasi preoccupazione che ci assilla per entrare in un altro ambito di serena attenzione. Non vale la pena dedicarsi a leggere un testo biblico se si vogliono ottenere risultati rapidi, facili o immediati. Perciò, la preparazione della predicazione richiede amore. Si dedica un tempo gratuito e senza fretta unicamente alle cose o alle persone che si amano; e qui si tratta di amare Dio che ha voluto parlare.A partire da tale amore, ci si può trattenere per tutto il tempo necessario, con l’atteggiamento del discepolo: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta» (1 Sam 3,9).

147. Prima di tutto conviene essere sicuri di comprendere adeguatamente il significato delle parole che leggiamo. Desidero insistere su qualcosa che sembra evidente ma che non sempre è tenuto presente: il testo biblico che studiamo ha duemila o tremila anni, il suo linguaggio è molto diverso da quello che utilizziamo oggi. Per quanto ci sembri di comprendere le parole, che sono tradotte nella nostra lingua, ciò non significa che comprendiamo correttamente quanto intendeva esprimere lo scrittore sacro. Sono note le varie risorse che offre l’analisi letteraria: prestare attenzione alle parole che si ripetono o che si distinguono, riconoscere la struttura e il dinamismo proprio di un testo, considerare il posto che occupano i personaggi, ecc. Ma l’obiettivo non è quello di capire tutti i piccoli dettagli di un testo, la cosa più importante è scoprire qual è il messaggio principale, quello che conferisce struttura e unità al testo. Se il predicatore non compie questo sforzo, è possibile che neppure la sua predicazione abbia unità e ordine; il suo discorso sarà solo una somma di varie idee disarticolate che non riusciranno a mobilitare gli altri. Il messaggio centrale è quello che l’autore in primo luogo ha voluto trasmettere, il che implica non solamente riconoscere un’idea, ma anche l’effetto che quell’autore ha voluto produrre. Se un testo è stato scritto per consolare, non dovrebbe essere utilizzato per correggere errori; se è stato scritto per esortare, non dovrebbe essere utilizzato per istruire; se è stato scritto per insegnare qualcosa su Dio, non dovrebbe essere utilizzato per spiegare diverse idee teologiche; se è stato scritto per motivare la lode o il compito missionario, non utilizziamolo per informare circa le ultime notizie.

  1. Certamente, per intendere adeguatamente il senso del messaggio centrale di un testo, è necessario porlo in connessione con l’insegnamento di tutta la Bibbia, trasmessa dalla Chiesa. Questo è un principio importante dell’interpretazione biblica, che tiene conto del fatto che lo Spirito Santo non ha ispirato solo una parte, ma l’intera Bibbia, e che in alcune questioni il popolo è cresciuto nella sua comprensione della volontà di Dio a partire dall’esperienza vissuta. In tal modo si evitano interpretazioni sbagliate o parziali, che contraddicono altri insegnamenti della stessa Scrittura. Ma questo non significa indebolire l’accento proprio e specifico del testo che si deve predicare. Uno dei difetti di una predicazione tediosa e inefficace è proprio quello di non essere in grado di trasmettere la forza propria del testo proclamato.

 

Testi a cura di

Giulio Michelini ofm

giuliomichelini@gmail.com

[1] Ci limitiamo a segnalare gli studi più recenti, mentre agli altri faremo riferimento di volta in volta: F.G. Voltaggio, «Ezra e Neḥemya», in M. Cassuto Morselli – G. Michelini, La Bibbia dell’Amicizia. Brani dei Ketuvim/Scritti commentati da ebrei e cristiani, San Paolo 2021, 105-113; F. Bianchi, Esdra-Neemia. Introduzione, traduzione e commento, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2011; C. Balzaretti, Ricostruire e ricominciare. Leggere la Bibbia nella comunità con Esdra-Neemia, Paoline, Milano 2010; Id., Esdra Neemia, Paoline 1999.

[2] Segnaliamo soltanto F. Manns, «La lettura pubblica della Torah e la festa di Sukkot (Ne 8,1-18)», in M. Cassuto Morselli – G. Michelini, La Bibbia dell’Amicizia, 340-345.

[3] Nel presentare l’ipotesi di Mark Whitters, non possiamo non considerare un’obiezione all’impianto costruito dallo storico dell’Eastern Michigan University: mentre la liturgia di Ne 8 è scandita precisamente nei suoi passaggi logici, quella di Whitters è ricostruita sulla base di iscrizioni e scene non legate in modo consequenziale.

[4] «I cristiani non possono dimenticare che Gesù discende da Zorobabele (Mt 1,12-13; Lc 3,27): tale nome – “discendenza di Bavel” – segnala che nelle origini di Gesù c’è anche Bavel» (G. Voltaggio).

[5] M. Crimella, Luca. Introduzione, traduzione e commento, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2015, 361.

[6] A. Puig i Tàrrech, I vangeli aprocrifi, I, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2010, 286.

[7] F. Bovon, Luke 3. A Commentary on the Gospel of Luke 19:28–24:53, Fortress Press, Minneapolis, MN 2012, 372.

[8] Nel giudaismo del Secondo Tempio era comune parlare di angeli raffigurandoseli come giovani uomini; per la documentazione, si veda ad es. A.Y. Collins, Mark. A Commentary on the Gospel of Mark, Fortress Press, Minneapolis, MN 2007, 795, n. 222.

[9] Cf. R. Romizi, Greco antico. Vocabolario greco italiano etimologico e ragionato, Zanichelli, Bologna 2007, 947.

[10] Il verbo nel Primo Testamento è usato ancora varie volte per Abramo (ad es. Gen 12,10: «Venne una carestia nel paese e Abram scese in Egitto per soggiornarvi da forestiero»), ma anche per il popolo d’Israele che da Abramo discende (ad es. Es 6,4: «Ho stabilito la mia alleanza con loro, per dar loro il paese di Canaan, quel paese dove essi soggiornarono come forestieri»).

[11] M. Heidegger, Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1968, 1.

[12] Cf. D. Monshouwer, «The Reading of the Prophet in the Synagogue at Nazareth», Biblica 72 (1991) 90-99.